Lo Spietato, la recensione

Una perfetta parabola criminale in Lo Spietato racconta Milano e l'Italia degli anni '80 e '90 meglio di tanti altri film

Critico e giornalista cinematografico


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Milano il cinema italiano non la racconta quasi mai, invece è la città cruciale per il racconto di tutto quel che è accaduto al paese negli ultimi 40 anni. La città dello spettacolo, dell’imprenditoria, della moda negli anni in cui la moda era tutto ciò che contava, la città delle aspirazioni, usata come ufficio più che come residenza e a partire dalla seconda repubblica la città della politica. Il cinema italiano più radicato sul territorio preferisce raccontare il meridione (le terre selvagge del nostro paese in cui è plausibile possa accadere di tutto) e pigramente Roma (la città dove si fa il cinema) ma è per Milano che sono passati i grandi mutamenti umani e Lo Spietato se ne rende perfettamente conto. Contrariamente a quanto accade di solito, infatti, questo film criminale di Renato De Maria non potrebbe essere ambientato in nessun altro luogo.

È a Milano che arrivano gli emigranti, come la famiglia del protagonista in fuga dalla Calabria con disonore per le azioni di un padre che non è proprio un uomo d’onore agli occhi della ‘ndrangheta. È a Milano che il protagonista può iniziare una nuova vita ben più criminale di quella paterna (bellissimo che criminale ci diventi in prigione, dopo esserci finito per errore), ed è proprio il clima milanese degli anni ‘70 e ‘80 che lo fa diventare un imprenditore del crimine, un Berlusconi o un Agnelli dello spaccio. Come Scarface infatti qui si parla del sogno italiano, del desiderio di essere manager rampanti, solo declinato nel mondo criminale e nelle attività poco pulite.

La casa vista Duomo e poi quella nell’hinterland, la moglie timorata e meridionale ma anche l’immancabile amante dall’allure internazionale, presa dal mondo dell’arte, e ancora le auto sportive e gli abiti. Tutto è uno status symbol e benché l’acquisizione di status symbol sia un classico di qualsiasi storia criminale (e Lo Spietato questo è: una storia criminale classica e opportunamente convenzionale), è a Milano che questi suonano diversamente, in quel mondo e in quell’humus e con quel falsissimo accento che viene messo su per integrarsi.

Questo racconta Lo Spietato, la storia di Saverio Morabito romanzata come nel libro Manager Calibro 9, che in realtà è la storia di come Milano abbia inciso nei nostri anni, a partire da quale brodo culturale e segnando quale percorso. Tutto nella forma del cinema criminale puro. E quella forma Lo Spietato la centra bene, obbedendo ai suoi dettami e ai suoi topoi senza mancarne uno, non avendo paura della violenza (ripresa bene), sapendo lavorare con la testa sull’azione (non molta ma quel poco è fatto senza fare il passo più lungo della gamba) e divertendosi.

Classico come classica è la parabola raccontata, Lo Spietato fa il miglior lavoro possibile e lavora sui corpi giusti (incredibile come sembra non ci sia nemmeno un attore stonato in questo coro perfettamente accordato!) per far aderire il nostro scenario ad una mitologia che non nasce da noi ma che, incredibile, racconta bene anche la nostra storia. Quella della grande corsa alla realizzazione di sé, delle aspirazioni imposte dalla società del benessere che vanno raggiunte a tutti i costi per dirsi realizzati, e se si è esclusi dalla corsa legale allora ci si arriverà prendendo la via della pistola.

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