Lo sciame, la recensione
Più dramma familiare che horror vero e proprio, Lo sciame è un sorprendente esordio tra locuste reali e metaforiche
Virginie è una madre single il cui marito è morto, ci viene detto rimanendo sul vago, “in mezzo alle capre”. Man mano che conosciamo lei e la sua prole (la figlia maggiore Laura e il figlio minore Gaston) ci facciamo un’idea più precisa di cosa significhi quella frase criptica: la famiglia Hébrard insegue da sempre il ritorno alla natura e sogna di potersi sostenere con l’allevamento, vivendo il più possibile off the grid, maneggiando solo contanti e in generale preparandosi all’imminente apocalisse climatica. Visto che le capre non sono andate bene e hanno anzi causato un lutto, Virginie ha deciso di ripartire da una fonte di proteine abbondante, economica e potenzialmente migliore anche della carne di mammifero: le cavallette. Virginie le alleva, le frigge e le vende come delicatezze, oppure le trita e ne fa farina; ovviamente, visto che vive in un paesino della Francia, viene vista come la pazza del posto, e la figlia bullizzata a scuola dai compagni che non possono sopportare la stranezza di una vicina che cucina locuste.
Se abbiamo dedicato così tanto spazio alla descrizione del nucleo famigliare c’è un motivo: gran parte del film di Philippot è dedicata a loro tre, alle loro dinamiche, agli scontri costanti che creano tensione e malessere – amplificato dal fatto che le locuste non mangiano, non si riproducono e minacciano di mandare sul lastrico gli Hébrard. E siccome Lo sciame è un film brulicante di metafore, Virginie trova una soluzione alla sterilità delle sue bestie, che consiste nel nutrirle del suo sangue; simbolicamente ma anche letteralmente: le cavallette amano talmente tanto il sapore del sangue umano che quando cominciano a nutrirsene ritrovano la voglia di vivere, di accoppiarsi e di divorare svariati piccoli animali che vagano nei pressi della fattoria.
Cosa ne pensate della recensione? Ditecelo dopo aver visto Lo sciame su Netflix!