Lo sciame, la recensione

Più dramma familiare che horror vero e proprio, Lo sciame è un sorprendente esordio tra locuste reali e metaforiche

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Lo sciame, esordio alla regia del francese Just Philippot, si presenta come un horror, e a buon diritto: parla di cavallette fameliche che scoprono il sapore della carne umana e portano morte e distruzione ovunque vadano. Quello che vi state immaginando non è però quello che vi aspetta su Netflix: lungi dall’essere un creature feature a base di insetti, Lo sciame (guarda il trailer) è un curioso ibrido tra orrore a fuoco lento, dramma familiare e persino film di denuncia sociale. Un’opera uscita in sordina (noi ve l'avevamo segnalata qui) che, in omaggio alle sue vere protagoniste, fa ronzare nella testa di chi guarda decine di idee, poche delle quali si possono far risalire all’horror classico; il fatto che quelle poche che ci sono siano di enorme efficacia non è quasi necessario, ma è una bella ciliegina sulla torta.

Virginie è una madre single il cui marito è morto, ci viene detto rimanendo sul vago, “in mezzo alle capre”. Man mano che conosciamo lei e la sua prole (la figlia maggiore Laura e il figlio minore Gaston) ci facciamo un’idea più precisa di cosa significhi quella frase criptica: la famiglia Hébrard insegue da sempre il ritorno alla natura e sogna di potersi sostenere con l’allevamento, vivendo il più possibile off the grid, maneggiando solo contanti e in generale preparandosi all’imminente apocalisse climatica. Visto che le capre non sono andate bene e hanno anzi causato un lutto, Virginie ha deciso di ripartire da una fonte di proteine abbondante, economica e potenzialmente migliore anche della carne di mammifero: le cavallette. Virginie le alleva, le frigge e le vende come delicatezze, oppure le trita e ne fa farina; ovviamente, visto che vive in un paesino della Francia, viene vista come la pazza del posto, e la figlia bullizzata a scuola dai compagni che non possono sopportare la stranezza di una vicina che cucina locuste.

Familia

Se abbiamo dedicato così tanto spazio alla descrizione del nucleo famigliare c’è un motivo: gran parte del film di Philippot è dedicata a loro tre, alle loro dinamiche, agli scontri costanti che creano tensione e malessere – amplificato dal fatto che le locuste non mangiano, non si riproducono e minacciano di mandare sul lastrico gli Hébrard. E siccome Lo sciame è un film brulicante di metafore, Virginie trova una soluzione alla sterilità delle sue bestie, che consiste nel nutrirle del suo sangue; simbolicamente ma anche letteralmente: le cavallette amano talmente tanto il sapore del sangue umano che quando cominciano a nutrirsene ritrovano la voglia di vivere, di accoppiarsi e di divorare svariati piccoli animali che vagano nei pressi della fattoria.

C’è un po’ di body horror, soprattutto nel modo in cui Virginie regala il suo corpo a quello che è di fatto il più grande investimento della propria vita; c’è un po’ di Lovecraft nel vedere questa povera famiglia di campagna che si ritrova a condividere la propria fattoria con un Male antico e famelico; c’è molto dolore, raccontato e mostrato con lunghi primi piani silenziosi di gente che piange. C’è invece pochissima azione, pochissime locuste assassine come pare promettere la locandina: i limiti tecnici e di budget si uniscono alla voglia di Philippot di fare un film che sfrutta l’orrore per parlare di tutt’altro, e per la maggior parte del tempo le cavallette sono una minaccia teorica, non un mostro da cui difendersi. Un finale un po’ troppo frettoloso e spettacolarizzato rovina un po’ la rincorsa del film fino a quel momento, ma è anche vero che un po’ di catarsi è necessaria dopo quasi cento minuti di disagio e male di vivere.

Cosa ne pensate della recensione? Ditecelo dopo aver visto Lo sciame su Netflix!

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