Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug, la recensione [4]
Il secondo capitolo della nuova trilogia di Peter Jackson tratta dal romanzo Lo Hobbit di J.R.R. Tolkien non convince fino in fondo...
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Il secondo capitolo della trilogia dedicata a Bilbo Baggins, lo sapevamo già, è il film più difficile dell’intero corpus jacksonian - tolkieniano: da un lato ci sono le normali necessità cinematografiche (leggasi, gli incassi), dall’altro c’è un materiale di partenza piuttosto striminzito, che funziona molto bene letterariamente ma che, tradotto in immagini, tradisce la tensione dell’autore fra il registro della fiaba e quello dell’epica anglosassone. Tolkien, com’è ovvio, non ha colpe, dopotutto quando scrisse Lo Hobbit non aveva ancora inquadrato del tutto gli enormi sviluppi dei libri successivi e, per questo motivo il libro rivela alcune incoerenze e alcuni passaggi che stonano in maniera palese rispetto alle vicende del Signore degli Anelli. Peter Jackson, Philippa Boynes e Fran Walsh, invece, hanno avuto il problema ben chiaro fin da subito e, con una certa dose di hybris, hanno pensato di trasformare la versione cinematografica dello Hobbit in una sorta di filologia del Signore degli Anelli, unendo forzosamente le due opere. Tolkien, quando si accorse del problema, risolse elegantemente la questione con un enorme corpus di appendici e nuove narrazioni, dando modo al lettore di penetrare - non senza una certa fatica intellettuale - molte delle ramificazioni della Terra di Mezzo, Jackson, invece ha cercato di infilare questo enorme lavoro (fanta)storiografico all’interno dei mezzi propri del cinema, creando un’opera che, con questo secondo capitolo, inizia già a mostrare tutte le sue contraddizioni interne. La sovrapposizione dei due piani narrativi (per semplificare al massimo e senza spoiler, quello di Gandalf e quello della Compagnia di Thorin) funziona piuttosto male e, se per un fan vedere determinati luoghi non può che far scorrere un brivido, nel complesso il film risulta a tratti inutilmente prolisso.