Lo Hobbit: la Desolazione di Smaug, la recensione [2]
Colpisce nel segno il secondo, bellissimo capitolo della trilogia dello Hobbit, che lascia le atmosfere leggere di Un Viaggio Inaspettato per colorarsi di tinte cupe...
Sarebbe da raccoglierli tutti, davvero. Sarebbe da raccoglierli tutti per portarli davanti a Peter Jackson, e poi mettersi in un angolo a godersi lo spettacolo del loro imbarazzo.
Certo che, vedendo La Desolazione di Smaug, secondo capitolo della trilogia che ha riportato il regista nelle terre già esplorate con Il Signore degli Anelli, si stenta a credere che in un remoto passato si fosse davvero ipotizzato un dittico filmico, avendo per le mani così tanta materia da raccontare. E con tanta carne al fuoco, c'era il pericolo di farla bruciare o di servirla scotta: nulla di tutto ciò è avvenuto. Ogni singolo ingrediente, ogni singola sequenza di questo film sembra incastonata nell'unico posto possibile, per l'unico lasso di tempo possibile, e risulta impensabile ipotizzare una soluzione migliore per un quadro d'insieme ancora più accurato e bilanciato di quella sbalorditiva meraviglia impressionista che porta il nome di Un Viaggio Inaspettato. Forse per merito del lavoro "sporco" svolto dal primo episodio, che aveva fornito al pubblico un perfetto identikit dei personaggi principali; forse anche grazie al coraggio di tradire la fonte originaria del romanzo tolkeniano, già portato ad un ottimo stadio di gemmazione dalla semina del primo film; grazie, di sicuro, alle appendici del Signore degli Anelli, inserite a conferire epicità alla sopracitata "favoletta" che, incorniciata da queste aggiunte, poi tanto favoletta non è. Anzi: se non ci voleva comunque un genio per intuire che il percorso del giovane hobbit Bilbo Baggins nel precedente film lo avrebbe portato faccia a faccia con il Male con la M maiuscola, in questo capitolo il pericolo diventa palese, assumendo una forma e soprattutto un nome ben riconoscibile.
Come già in Un Viaggio Inaspettato, Bilbo si fa tramite dello sguardo dello spettatore. Ma è ormai un Bilbo diverso, un Bilbo che ha ucciso e che ucciderà ancora: il suo candore è irrimediabilmente in via di corruzione e anche lo sguardo incantato che lo caratterizzò nel primo film si va tramutando in uno più consapevole, malinconico e tormentato, complice la potenzialità demoniaca dell'Anello. Ma l'avventura dello hobbit non è mai stata solo sua, e il protagonista passa lo scettro a tutti. Il risultato è un ritratto corale ben più emozionante del primo film, dove i nani, salvo rare eccezioni, erano necessariamente delineati con rapide pennellate di caratterismo. Ma ora Jackson stringe l'obiettivo e inquadra da vicino la compagnia di Thorin Scudodiquercia, perché la storia può essere rocambolesca, ma non appassionerà mai un pubblico che non si sia prima affezionato ai suoi protagonisti. Il regista questo lo sa bene, e sa che con Un Viaggio Inaspettato è finito il tempo delle presentazioni: la corsa verso Erebor è ciò che gli interessa, e si può prendere tutto il tempo (senza sprecare nemmeno un minuto, badate) per raccontare i suoi personaggi. Lo fa senza indulgere in spiegazioni verbose, attraverso azioni più che parole, attraverso sguardi più che dialoghi, soppesando al grammo ogni apparizione sullo schermo.
Ed ecco che il film diventa un gruppo di volti desunti da Tolkien ma immensamente potenziati da un lavoro sceneggiatoriale sopraffino quanto arduo, che si prende la responsabilità di infischiarsene della stolida, pedissequa fotocopia cinematografica del precedente letterario. Tra questi volti emerge la pietra dello scandalo, la spuria elfa Tauriel non creata da Tolkien ma che di Tolkien ha tutto, o almeno del Tolkien rielaborato da Jackson: rivivono in lei echi ieratici della Galadriel di Cate Blanchett e, forse ancora di più, dell'Arwen di Liv Tyler, accostati senza stridore all'irruenza più violenta e sanguinosa legata alla giovane età della guerriera. Speriamo che basti la bellezza non certo solo estetica ma soprattutto attoriale di Evangeline Lilly a salvare Tauriel dal pregiudizio dei tanti fan amanti dei paraocchi, che già da mesi le hanno preparato il patibolo; sorte che, alla luce della sua performance e della perfezione del personaggio, risulta quantomai immeritata.
Le architetture del reame boscoso si articolano come nervature cesellate da una mano divina, specchio mastodontico del loro sovrano Thranduil, che in poche ma illuminanti scene delinea, grazie alla potente interpretazione di Lee Pace, una psicologia ben più complessa di quanto non ci si sarebbe aspettato. Gli fa da contraltare un sorprendente Orlando Bloom, che ha qui l'occasione di fornire a Legolas un servigio non indifferente: dargli un passato costruito in funzione del suo futuro. Sarà impossibile non osservarlo con occhi diversi rivedendo Il Signore degli Anelli dopo aver seguito le sue peripezie nel prequel; tuttavia, le radici che Jackson innesta per l'albero che ha già tra le mani risultano perfettamente plausibili e mai, davvero mai, macchinose. In questo contesto, impressiona l'efficacia di un triangolo amoroso su cui i più non avrebbero scommesso un centesimo, e che dà al Kili di Aidan Turner la possibilità di esprimere al meglio un talento interpretativo davvero notevole.
Plauso a tutto il cast di Pontelagolungo, tra cui svettano il laido Governatore di Stephen Fry, disegnato con perfezione teatrale dal grande attore e visivamente figlio di certi riccastri di stampo rembrandtiano, il viscido consigliere arraffone Alfrid di Ryan Gage e il Bard di Luke Evans, che può davvero diventare l'erede (o meglio, l'antesignano) in panni lerci dell'eroismo duro e puro di Aragorn, sebbene ammorbidito dalle tenerezze dell'amore domestico (bravo anche il giovanissimo John Bell nel ruolo del figlio di Bard, Bain).
In un'operazione che sembra omaggiare Le Due Torri, Jackson articola due linee narrative distinte: una portata avanti da Bilbo e dai nani, l'altra che segue Gandalf (un Ian McKellen perfetto, e come potrebbe essere diversamente?) che si addentra nei meandri della minaccia ormai evidente che grava sulla Terra di Mezzo. Il profilarsi di un antico nemico era già stato suggerito nel primo capitolo, ma è in questo secondo episodio che lo scontro tra bene e male inizia ad assumere proporzioni spaventose finora solamente ipotizzate, racchiuse in una nube di fumo nero che invade la fortezza abbandonata di Dol Guldur, strenuamente illuminata dalla luce del Bene, dalla luce di Gandalf. Ma la luce non è sempre e solo foriera di speranza, e la luce più accecante di tutte è quella che fuoriesce dalle fauci del Male, perfettamente incarnato nel famigerato drago Smaug. Il limite del doppiaggio non consente di valutare appieno l'impressionante performance di Benedict Cumberbatch, ma basta già la sola mimica del gigantesco sauro per spingerlo inesorabilmente a fianco del Gollum di Andy Serkis per espressività e resa drammatica.
Smaug è uno sprazzo imprevedibile di luce diabolica nelle tenebre silenziose di Erebor e nell'azzurro intenso degli occhi spalancati di Bilbo, un Martin Freeman ancora una volta immenso, i cui panni improvvisati di combattente sono ormai divenuti una seconda pelle in grado di catapultarlo nell'Olimpo degli eroi. Ma, c'è un grosso ma: la scalata di Bilbo è aggravata dal peso più grande che esista, quello dell'Unico Anello, al contempo ancora di salvezza e pietra che fa a colare a picco il giovane. La coscienza dello hobbit è dilaniata da un dolore assai più grave degli artigli del drago: ha intuito il potere distruttivo dell'Anello, eppure non riesce a separarsene. La sua parabola corre in parallelo a quella di Thorin, un Richard Armitage eroico come non mai e come non mai travagliato. Non è lui il nemico, certo, ma l'amicizia con Bilbo e con i compagni corre su un sentiero sempre più accidentato.
Un sentiero accidentato è stata anche l'intera impresa di adattamento dello Hobbit, per cui Jackson ha lottato e continua a lottare con una forza che trapela da ogni inquadratura, in un climax impressionante che prende rapidamente le distanze dalla giocosità delle intenzioni tolkieniane per riallineare, ormai in modo definitivo, la saga alla trilogia del Signore degli Anelli. Ma allineare non significa sovrapporre e copiare, e il regista se ne guarda bene dal tentare un'imitazione di se stesso che, a dieci anni di distanza, lo farebbe irrimediabilmente regredire. Dal 2003 ne è passata di acqua sotto i ponti: Jackson è cresciuto, e la sua maturità esplode nel sublime finale, con una memorabile scena notturna solcata da un'infausta pioggia dorata. Libero dagli schematismi della narrazione tradizionale, si concede il lusso di un troncamento narrativo che mozza il fiato, affonda una mano nell'animo dello spettatore e lo trascina in una folle corsa verso l'abisso più oscuro che si possa immaginare. A nulla serve dibattersi, è una caduta libera che non si ferma fino all'ultimo fotogramma. Non c'è spazio per la speranza, non c'è sospiro di sollievo che si possa tirare in questo sconvolgente finale, adombrato dalla minaccia dell'orrore che incombe sul terzo capitolo. Ci sarà da piangere, questo è poco ma sicuro: ma, sentimenti a parte, per una legge di probabilità, a due capolavori dovrebbe seguirne un terzo. E a luci spente, nell'oscurità della sala dove echeggiano le note di Ed Sheeran, è davvero difficile pensare che There and Back Again (o Racconto di un Ritorno) esca fuori da un tracciato che, passo dopo passo, assume sempre più la forma di un miracolo cinematografico.