Living With Yourself: la recensione

Nonostante un ottimo Paul Rudd, Living With Yourself è un dramma esistenziale dal fiato corto e indeciso quanto al tono da assumere

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Living With Yourself: la recensione

Living With Yourself sta a Mi sdoppio in 4, diretto da Harold Ramis, come Russian Doll stava a Ricomincio da capo, sempre diretto dallo stesso regista. Nel senso che alla base della vicenda c'è sempre uno spunto surreale e improbabile, che però non è importante nelle sue motivazioni intrinseche perché la storia va immediatamente a parlare di altro. E lo fa con un linguaggio diverso da quello che ci aspetterebbe. Come Russian Doll, anche Living With Yourself presta infatti il fianco alla commedia, ma se ne distanzia da subito. Risultato è un insolito dramma esistenziale dalle venature leggere, dal fiato corto e indeciso quanto al tono da assumere.

Il protagonista è Miles (Paul Rudd), un pubblicitario frustrato e insoddisfatto dalla vita, che non riesce ad avere figli con la moglie Kate (Aisling Bea). Su consiglio di un collega, finisce in una specie di laboratorio mascherato da spa, che dovrebbe fare di lui una persona nuova. Più o meno letteralmente, le cose vanno proprio così, nel senso che Miles si trova a dividere la propria vita, i propri spazi e ricordi con una versione praticamente perfetta e vincente di se stesso. Questo clone invade gli spazi sul lavoro e in famiglia, e insieme ai vantaggi la cosa presenta anche degli aspetti negativi.

La serie fa parte di un particolare filone recente di dramedy seriali, commedie che guardano al dramma e all'elaborazione dei personaggi. Qualcosa che trova un corrispettivo in certo cinema indipendente, un collegamento qui suggerito dalla regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris (Ruby Sparks). Si tratta di show come il già citato Russian Doll, ma anche Maniac o Forever. Titoli che partono da una premessa surreale, fantascientifica o sovrannaturale, ma che abbandonano il racconto di genere per cadere in considerazioni che potremmo definire esistenziali.

Nello specifico qui si parla di insoddisfazione cronica, dell'incapacità di stare bene con se stessi, ma anche delle aspettative eccessive proiettate sugli altri e su di noi. Miles, in entrambe le sue versioni, non è felice perché proietta su di sé un ideale di perfezione che non può raggiungere o che gli altri non possono sostenere.

La serie in otto episodi da mezz'ora è questa. Lo spunto è gradevole, Paul Rudd è doppiamente adorabile ed è la spina dorsale del progetto (ma occhio a non sottovalutare Aisling Bea). Tuttavia Living With Yourself ha il fiato ancor più corto di quel che la sua breve durata richiederebbe. A monte di ciò risiede il tono indefinito della narrazione. La premessa si esaurisce in due puntate, e l'intreccio prettamente amoroso non è così forte o ben costruito. Come commedia non fa abbastanza ridere, come dramma non si prende abbastanza sul serio.

Lo stesso intreccio frena ripetutamente, in un continuo tornare indietro nel tempo per mostrarci una stessa vicenda dal punto di vista di un altro personaggio. Quello che inizia come un gioco, anche visivo, stimolante e potenzialmente divertente, accumula così fatica di puntata in puntata. Non aiuta il fatto che, complice il tono ambivalente, la posta in gioco non è mai del tutto chiara.

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