Little Fires Everywhere: la recensione

La nostra recensione della serie Little Fires Everywhere con protagoniste Reese Witherspoon e Kerri Washington

Condividi

Little Fires Everywhere, il romanzo scritto da Celeste Ng, è stato adattato in una miniserie in otto puntate che può contare sull'esperienza di Reese Witherspoon e Kerry Washington per superare alcuni evidenti punti deboli che, senza il sostegno di un cast dall'indubbia bravura, avrebbero potuto distruggere l'intera struttura narrativa causando ben più danni di un incendio.

Gli episodi sono ambientati nella seconda metà degli anni '90, dando inoltre spazio ad alcuni flashback che rivelano il passato dei protagonisti. La storia prende il via con l'arrivo a Shaker Heights, Ohio, di Mia Warren (Washington), un'artista abituata a vivere viaggiando e dovendo sempre fare i conti con una situazione economica non particolarmente abbiente, e sua figlia Pearl (Lexi Underwood), il cui sogno è inserirsi nella comunità e stringere finalmente dei rapporti stabili. Ad accoglierle e prenderle sotto la propria ala protettiva è la giornalista e madre di quattro figli Elena Richardson (Witherspoon), che permette alle due nuove arrivate di affittare una casa di proprietà della sua famiglia a un prezzo agevolato e inizia a interessarsi della loro situazione nonostante il marito Bill Richardson (Joshua Jackson) provi a convincerla di non farsi coinvolgere. La situazione diventa però sempre più intricata e complicata perché Elena offre un lavoro nella propria casa a Mia e i suoi figli, Moody (Gavin Lewis), un teenager introverso, e il popolare Trip (Jordan Elsass) iniziano ad avvicinarsi a Pearl. La figlia maggiore di Elena, Lexie Richardson (Jade Pettyjohn) sfrutta inoltre una discriminazione subita dalla nuova compagna di scuola come fonte di ispirazione per la sua domanda di ammissione al college, suscitando lo sdegno del fidanzato Brian Harlins (SteVonté Hart), mentre la giovanissima Izzy (Megan Stott) si ritrova alle prese con il tentativo di capire la propria identità e le difficoltà affrontate provando a comunicare con la propria madre.

L'esistenza dei Richardson e delle Warren si intreccia poi con quella di Linda McCullough (Rosemarie DeWitt) e suo marito, diventati genitori affidatari di una neonata di origine asiatica che ora sperano di adottare.

Le interessanti tematiche, sempre attuali e rilevanti per riflettere sulla società contemporanea, sul concetto di maternità e su cosa comporta avere figli, sui pregiudizi razziali, sul concetto di vivere un'esistenza all'insegna dei privilegi e sul trovare la propria identità rendono la visione piuttosto stimolante e interessante. L'adattamento curato dal team guidato da Liz Tigelaar non riesce però a gestire tutti gli elementi a propria disposizione oroponendo una storia delineata a grandi linee che dimentica di assegnare le giuste sfumature ai personaggi e alle situazioni, rendendo così l'intera struttura della narrazione poco realistica nonostante gli intenti lodevoli. Le protagoniste interpretate dalle esperte Reese Witherspoon, ancora una volta particolarmente brava dopo Big Little Lies nel portare in scena una donna e madre dal carattere determinato e alle volte incapace di comprendere le necessità e la prospettiva degli altri, e Kerri Washington, convincente in modo intermittente, faticano a suscitare empatia o andare oltre dei cliché che fanno rimanere i due personaggi in costante opposizione, puntando l'attenzione su dei contrasti che, essendo così netti, rendono complicato riflettere in modo obiettivo sulle problematiche che incarnano Elena e Mia.
Lo stesso accade con il processo che alimenta quanto accade nell'aula di tribunale, uno degli intrecci dal potenziale più interessante e intigrante, e con la nuova generazione i cui problemi e dubbi sono estremizzati, rendendo quasi impossibile simpatizzare realmente per dei ragazzi poco consapevoli della propria situazione privilegiata e della propria incapacità di ascoltare e relazionarsi con il prossimo. L'unica eccezione sembra essere Izzy, in particolare grazie alla bravura di Megan Stott che riesce a trasmettere tutta la sua frustrazione, disperazione e tristezza con una performance in grado di distinguersi e tenere testa alle due star, nonostante l'evidente differenza di età e di esperienza. La giovane attrice sa trovare il giusto approccio agli eventi con al centro il proprio personaggio e rappresenta forse l'elemento più convincente dell'intero progetto, considerando inoltre lo spazio limitato concesso a Joshua Jackson e Rosemarie DeWitt, entrambi in grado di rubare la scena con poche battute e scene ma purtroppo sempre in ombra.
Il problema principale di Little Fires Everywhere, nonostante una regia attenta e una fotografia ben curata che enfatizza contrasti e atmosfere, è la costruzione dei personaggi e l'incapacità di approfondire elementi come la riflessione su ciò che rende una donna una buona madre, elemento che dovrebbe invece essere alla base delle otto puntate.
A lasciare interdetti è inoltre la gestione dell'ultima puntata che porta in scena un idealismo quasi stucchevole e dei cambi di rotta al limite dell'imbarazzante. I cambiamenti effettuati rispetto al libro di Celeste Ng sembrano più che altro orientati a gettare le basi per un'eventuale seconda stagione rispetto a offrire un epilogo soddisfacente e, soprattutto, significativo.
La visione di Little Fires Everywhere risulta comunque piacevole per chi ama le serie un po' melodrammatiche e confezionate con attenzione, seppur non del tutto in modo coerente, che intrattengono e rappresentano un'occasione per ammirare ancora una volta il talento delle sue due protagoniste.

CORRELATO ALLA RECENSIONE DI LITTLE FIRES EVERYWHERE

Continua a leggere su BadTaste