Lingui, la recensione | Cannes 74
Il modello del cinema africano da festival come l'abbiamo concepito negli ultimi 20 anni è tornato e nonostante una storia femminile non cambia molto
Mahamat-Saleh Haroun è legatissimo a Cannes e il festival è legatissimo a lui. Una buona parte dei suoi film degli ultimi 10 anni sono stati presentati qui, ed è la terza volta che è in concorso. Tuttavia, anche questa volta dopo Grigris, non ci si può non domandare cosa ci sia nel suo cinema di così accattivante per meritare tanta considerazione.
Mahamat-Saleh Haroun per la prima volta fa un film femminile e lo fa tutto femminile. Quella di Lingui è tuttavia una storia che abbiamo sentito molte volte raccontare in Occidente, in diversi film di diversi paesi tutti caratterizzati dalle proprie specificità locali. Nei casi migliori, come 4 mesi 3 settimane 2 giorni di Cristian Mungiu, le difficoltà locali nell’abortire sono il trampolino per qualcosa di più, il mezzo e non il fine, un’occasione per fare cinema e non l’obiettivo stesso del racconto.
Tutto ciò manca in Lingui, film che è la sua trama e che ha il classico stile del cinema da festival africano degli anni 2000 e 2010, cioè un minimalismo che non apre mai alle immagini, che non fa dell’economia una forza ma anzi è la copia del cinema d’autore occidentale.
Sembrava che con Atlantique (visto sempre qui a Cannes) qualcosa stesse cambiando e il cinema africano da festival cominciasse finalmente ad essere africano davvero, e non un sottoprodotto europeo. Lingui ci riporta indietro con le ambizioni, gli esiti e soprattutto la qualità della realizzazione. Povera di idee e (ancora più grave) di immagini, prima ancora che di produzione.