La linea verticale: la recensione

Con La linea verticale Rai 3 gioca la carta del dramedy, riuscendo a far sorridere e riflettere con un prodotto di qualità. La nostra recensione.

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TV

Che negli ultimi anni la Rai stia cercando di aprirsi a un nuovo pubblico, più giovane, esigente e digitalizzato, è sotto gli occhi di tutti. L'ha fatto lanciando RaiPlay, il proprio servizio di Video on Demand, e iniziando a proporre fiction - come si usa chiamare le serie quando nascono sulla televisione pubblica - sofisticate e moderne.

Dopo gli ottimi risultati ottenuti con il crime (Rocco Schiavone - La serie, Non Uccidere) e quelli meno incoraggianti riscossi dal dramma storico (Medici: Masters of Florence) e dal fantasy (Sirene), la Rai prova a "svecchiare" anche il comedy, un genere che, in forma serializzata, nel nostro paese ha funzionato molto raramente. Uno degli esempi più lampanti e riusciti è sicuramente Boris, e non è un caso che questo compito sia stato affidato a Mattia Torre, uno dei suoi tre autori.

Proposta integralmente su RaiPlay nei giorni antecedenti il suo passaggio in televisione e attualmente in onda il sabato su Rai 3 in seconda serata, La linea verticale nasce da un dramma vissuto dallo stesso Torre, raccontato dapprima in un omonimo libro e poi trasposto sul piccolo schermo in 8 episodi da circa mezz'ora. È la storia di Luigi (Valerio Mastandrea), un padre di famiglia sulla quarantina, il quale scopre improvvisamente di avere un tumore a un rene, e della sua degenza nel reparto di oncologia. Una degenza che, nelle mani di Torre, diviene un pretesto per parlare non solo della malattia ma anche dell'Italia, mettendone in scena luci e ombre attraverso rituali e personalità delle figure che abitano la struttura.

Nonostante sul tema di fondo ci sia ben poco da scherzare, la serie si muove sapientemente sul doppio binario del dramma e della commedia, riuscendo molto bene nell'alternare momenti riflessivi a sequenze dal taglio surreale. Oltre che della scrittura, meno caciarona di quella di Boris ma altrettanto tagliente, questo risultato è merito anche dell'ottimo lavoro svolto dagli attori, molti dei quali già apparsi propio nella "fuoriserie italiana". Assieme a un Mastandrea in stato di grazia e a una convincente Greta Scarano nei panni della tenace moglie del protagonista, nel cast troviamo infatti Ninni Bruschetta, Paolo Calabresi Antonio Catania, ma a spiccare più di tutti è uno spassosissimo Giorgio Tirabassi nel ruolo di un ristoratore con la passione per la medicina.

Da un punto di vista tecnico, La linea verticale porta in scena una regia e una fotografia che cercano la modernità pur rimanendo aderenti allo standard delle fiction italiane, risultando comunque superiori alla maggior parte dei prodotti proposti dalle reti Rai. Il vero apporto innovativo della serie non riguarda dunque il formato o il modo in cui essa è girata ma sta tutto nel modo in cui vengono raccontate le vicende, con la narrazione tradizionale affiancata dal voice over riflessivo e senza filtri del protagonista e da alcuni segmenti tra l'onirico e surreale tipici degli show americani (Scrubs, How I Met Your Mother, ma anche I Griffin).

Nonostante non sia totalmente esente da difetti, con soluzioni visive non sempre all'altezza e alcuni personaggi fin troppo stereotipati, La linea verticale risulta essere un ottimo punto di partenza su cui costruire un nuovo filone della nostra serialità televisiva. Una serialità di qualità, rivolta al grande pubblico ma con una forte e riconoscibile vena autoriale, capace di ironizzare su temi difficili senza mai cadere nello scontato o, peggio ancora, nel cattivo gusto.

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