Lincoln, la recensione

Lontano dai fasti di Schindler's List, Lincoln risulta un biopic dagli spunti interessanti, ma privo di una qualità che avrebbe di certo giovato al tutto: il coraggio...

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Non è facile trovare le parole adatte per spiegare, per illustare come e perché Lincoln sia stata una delusione, parziale sia chiaro, per il sottoscritto.

Mi rendo conto che questo esordio potrà lasciare perplesse, sbigottite molte persone per via della sua franchezza. Va a stridere con l'accoglimento trionfale che la critica internazionale ha riservato all'ultima opera di Steven Spielberg (e le ben 12 nomination agli Oscar). Non vorrei che pensiate che io stia ragionando da Bastian contrario solo per il gusto della polemica sterile o per andare in senso opposto al parere comune.

Grazie al cielo, non sono solito ragionare in questo modo, all'insegna della sterile vanità.

Personalmente trovo estremamente più semplice, agevole far capire perché un film mi sia piaciuto, rispetto all'atto del criticare in maniera negativa un'opera creata dall'ingegno di persone che, la maggior parte delle volte, tendo a reputare molto più sveglie del sottoscritto. Tendenzialmente credo che il frutto della creatività di un artista meriti comunque più rispetto delle parole di un qualsiasi imbrattacarte pagato per “giudicarlo”. La cosa diviene anche più scontata quando si parla di uno dei miei registi e di uno dei miei attori prediletti come Steven Spielberg e Daniel Day-Lewis.

Si tratta forse del dover scavare in mezzo a pensieri, sensazioni decisamente più stratificate e meno dirette del solito?

Può darsi, ma sto tergiversando già abbastanza, quindi è il caso di andare dritto al nocciolo della questione.

Lincoln non è un biopic semplice, già per la scelta di raccontare un periodo specifico, circoscritto, nella vita del 16° Presidente degli Stati Uniti d'America. Il primo Presidente appartenente alla fazione Repubblicana e, paradossalmente, l'artefice del più importante Emendamento della Costituzione americana, il XII Emendamento, quello che, di fatto, andava a abolire e proibire la schavitù. Le due ore e mezzo di durata della pellicola si concentrano su un lasso di tempo di quattro mesi, quello che dal gennaio del 1865 alla metà di aprile del medesimo anno, ha portato all'approvazione dell'atto e alla morte di Lincoln.

Forse il problema principale della pellicola risiede proprio in questa scelta che circoscrive in maniera eccessiva la portata drammatica di una vicenda fondamentale nella storia degli Stati Uniti d'America. In Lincoln non c'è un adeguato scavo del personaggio e se l'interpretazione – impeccabile – di Daniel Day-Lewis riesce a essere estremamente convincente con i non-detti, con i rimandi impliciti al dramma personale e politico di Abramo Lincoln che vengono comunicati anche solo attraverso uno sguardo, grave e sofferto, e tramite un paio di segmenti da brivido – specie il confronto in camera da letto con sua moglie Mary Todd - c'è la fastidiosa tendenza a impomatare tutto con la retorica, l'agiografia, il favolistico. Spielberg e lo sceneggiatore Tony Kushner confezionano uno splendido tableau vivant dell'epoca, bello quanto vi pare dal punto di vista tecnico e formale, ma privo di quella profondità riscontrabile in altre opere del maestro americano. Sembra quasi che quando Steven Spielberg va ad affrontare degli spaccati di storia che non si ricollegano direttamente al Popolo Ebraico, a quelle che sono le sue radici personali, tenda sempre a inciampare in quei “tranelli” che per molto tempo lo hanno tenuto lontano dai favori della “critica che conta” (e con questa espressione escludo automaticamente il sottoscritto, naturalmente). Il sentimentalismo. Il già citato favolistico. Quegli stessi problemi che hanno “mozzato” film che potevano tranquillamente aspirare a una perfezione quasi assoluta come Amistad e, soprattutto Salvate Il Soldato Ryan.

Dove sta la cruda sincerità - formale, narrativa, artistica, UMANA - di uno Schindler's List o di un Munich? Dove stanno i chiaroscuri dell'uomo citato in tutti i libri di storia, non solo quelli americani? La “leggenda” di Lincoln è, bene o male, nota universalmente ed è questo che il lungometraggio di Spielberg continua a fare. Alimentare il mito, senza andare a intaccarlo. L'Oskar Schindler di Liam Neeson era un viveur puttaniere, un imprenditore alla ricerca del successo economico per cui lo sfruttamento della mano d'opera ebrea era un mezzo per massimizzare il rapporto costi-ricavi. Era uno che malgrado una lista d'imperfezioni infinita degna della tradizione che contraddistingue da millenni noi esseri umani, è finito per onorare in maniera esemplare la frase del Talmud "Chi salva una vita, salva il mondo intero". In quello che ad oggi resta, insieme a E.T.Duel, il suo più importante capolavoro, Spielberg non ha mai omesso il resoconto di tutte le scappatoie, tutti i sotterfugi che hanno permesso a Schindler di fare quello che, fondamentalmente, gli premeva di più almeno all'inizio. Fare una barca di soldi.

Le polemiche nate prima, durante e dopo l'uscita di Munich, altra pellicola estremamente coraggiosa di Spielberg, testimoniano come, anche in quel caso, il regista abbia adottato un differente registro, un diverso approccio nella “sua” versione della cronaca della מבצע זעם האלMivtza Za'am Ha'el (Operazione Collera di Dio).

In Lincoln questo coraggio non si affaccia praticamente mai. Non c'è spazio per la controversia, nonostante le centinaia di migliaia di morti sulla coscienza del 16° Presidente degli Stati Uniti d'America, invischiato in una Guerra Civile logorante e sanguinosa, nel dramma personale della perdita di un figlio e di un rapporto non facile con la sua consorte.

Appaiono persino fuori luogo i toni leggeri, quasi farseschi con cui si assiste ai “curiosi” metodi con cui lo “staff” del politico tenta di assicurarsi i voti dei democratici. Che bisogno c'era di “alleggerire” un racconto che non aveva alcuna necessità di veder lenire la sua gravità?

Fortunatamente la pellicola ha diversi lati positivi che però, una volta posizionati sul piatto della bilancia, non bastano a decretarla un capolavoro assoluto, nonostante i canti celebrativi arrivati d'Oltreoceano. Lodare Daniel Day-Lewis sarebbe tautologico, ma quella vecchia e navigata volpe di Tommy Lee Jones riesce addirittura a rubargli la scena e a rendere credibile un momento – non vi rivelerò quale – che sarebbe potuto facilmente scivolare nello stucchevole. Del tutto superflua la presenza di Joseph Gordon-Levitt nei panni di Robert Lincoln: il rapporto padre assente/figlio, uno dei fondamenti della poetica spielberghiana, viene sbrigato in un paio di rapidi passaggi. Sally Field appare sprecata, compressa in un personaggio che, purtroppo, non viene approfondito a dovere.

Impeccabile, come sempre, la fotografia di Janusz Kamiński; scolastico l'accompagnamento sonoro di John Williams.

Malgrado la mancanza generale di coraggio, di zone d'ombra, di chiaroscuri, risulta estremamente, e paradossalmente, interessante il tratto scelto per raffigurare Lincoln, in quello che si viene a configurare come l'unico, vero momento di contraddizione non tanto del personaggio, quanto del film in sé. Il parallelo con la figura biblica di Mosè è abbastanza palese, tanto da che il Presidente diventa una sorta di epigono moderno del Liberatore del Popolo d'Israele dalla schiavitù egiziana. In un'opera che avrebbe di sicuro beneficiato di un maggior lavoro di scavo psicologico è ammirevole notare il rispetto quasi mistico, religioso, con cui Spielberg maneggia il protagonista.

Anche se ci sarebbe indubbiamente stato bisogno di una maggior dose di audacia nell'affresco degli ultimi mesi di vita di uno dei personaggi chiave che hanno contribuito a plasmare forse più di ogni altro la democrazia americana.

Una figura che sarebbe stata perfetta pure per continuare a analizzare un altro dei tempi cardine della cinematografia del filmmaker: il rapporto con l'altro.

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