Lift, la recensione

Lift è nè più nè meno quello che ci si aspetta da un film di rapina, ma prova che non è necessario sorprendere per divertire.

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La recensione di Lift, il nuovo film diretto da F. Gary Gray, in streaming su Netflix dal 12 gennaio.

Non è facile puntare il dito su perchè Lift ispiri tanta simpatia. Non si può dire che rivoluzioni niente nella commedia d’azione o nelfilm di rapina. Il terzo atto, fra aerei agganciati in volo e lingotti paracadutati sulle Alpi svizzere, è un frullato di situazioni straviste, e così la preparazione dell’immancabile colpo del secolo. Eppure quest’ora e quaranta di totale disimpegno passa in un lampo. Lo sceneggiatore Daniel Kunka conosce il genere come le sue tasche e lo approccia con l’umiltà di chi sa dosarne bene gli elementi. I personaggi sono clichè ma non è per forza un male. Con pochi tocchi si dà vita a un mondo implausibile e divertente, fatto di pura minestra riscaldata che però risulta gustosa perchè sa di (e come) esserlo.

La premessa è delle più classiche. Un super-ladro (Kevin Hart) e la sua banda vengono assoldati dall’Interpol per rubare l’oro di un oscuro magnate (Jean Reno) prima che venga usato per fare milioni di vittime. In cambio avranno la fedina penale pulita e potranno ricominciare. Scopriranno di avere un cuore e di essere degli eroi. Lift affida tutto a questi due cardini dell’heist movie: la dinamica fraterna tra i membri della gang e l’epica robinhoodesca del fuorilegge che si oppone al potente. A ciò si aggiunge l’idea del crimine come arte, resa bene dalla prima sequenza dove i nostri rapiscono un misterioso artista alla Banksy (Jacob Batalon) per far schizzare alle stelle le quotazioni della sua opera. Ancora una volta un tema già noto, ma aggiornato con astuzia all’epoca dell’hype culture, quando il valore artistico e commerciale si lega strettamente alla capacità di “fare evento”.

Gran parte del divertimento deriva dalla sicurezza con cui Lift proietta i suoi protagonisti in un mondo “già esistente”: quella volta a Monaco; quella rapina a Venezia; una storia d’amore a Parigi (e dove sennò?). “It’s good to be back” sono le prime parole pronunciate da Hart, una volta tanto non perchè ci troviamo nell’ennesimo sequel di una saga, ma perchè chi scrive ha studiato a fondo il manuale del b-movie. Il tempo stringe, hai meno di due ore per far affezionare il pubblico ai tuoi eroi, quindi evochi un passato che non si vede ma dà profondità al tutto, aiutando a percepirli come familiari anche se li vedi per la prima volta. Se il film scalda un po’ il cuore è perchè in esso rivive quest’arte perduta di creare dal nulla l’in medias res, portata all’estinzione dalle logiche seriali del cinema di franchise.

Non guasta neanche che il cast pulluli di bravi caratteristi. Hart (anche produttore) riesce sorprendentemente bene in un ruolo che ambisce a spingersi oltre i territori consueti della commedia demenziale per somigliare di più a un leading man classico. Reno e Vincent D’Onofrio si sacrificano come sempre in divertenti parti di contorno. Troviamo anche due volti importanti della scuderia Netflix, Úrsula Corberó aka Tokyo di La casa di carta, e Paul Anderson aka Arthur “fookin” Shelby in Peaky Blinders. Nessuna superstar, gioco di squadra e basso profilo. Nel crimine come nel cinema.

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