Lift, la recensione
Lift è nè più nè meno quello che ci si aspetta da un film di rapina, ma prova che non è necessario sorprendere per divertire.
La recensione di Lift, il nuovo film diretto da F. Gary Gray, in streaming su Netflix dal 12 gennaio.
La premessa è delle più classiche. Un super-ladro (Kevin Hart) e la sua banda vengono assoldati dall’Interpol per rubare l’oro di un oscuro magnate (Jean Reno) prima che venga usato per fare milioni di vittime. In cambio avranno la fedina penale pulita e potranno ricominciare. Scopriranno di avere un cuore e di essere degli eroi. Lift affida tutto a questi due cardini dell’heist movie: la dinamica fraterna tra i membri della gang e l’epica robinhoodesca del fuorilegge che si oppone al potente. A ciò si aggiunge l’idea del crimine come arte, resa bene dalla prima sequenza dove i nostri rapiscono un misterioso artista alla Banksy (Jacob Batalon) per far schizzare alle stelle le quotazioni della sua opera. Ancora una volta un tema già noto, ma aggiornato con astuzia all’epoca dell’hype culture, quando il valore artistico e commerciale si lega strettamente alla capacità di “fare evento”.
Non guasta neanche che il cast pulluli di bravi caratteristi. Hart (anche produttore) riesce sorprendentemente bene in un ruolo che ambisce a spingersi oltre i territori consueti della commedia demenziale per somigliare di più a un leading man classico. Reno e Vincent D’Onofrio si sacrificano come sempre in divertenti parti di contorno. Troviamo anche due volti importanti della scuderia Netflix, Úrsula Corberó aka Tokyo di La casa di carta, e Paul Anderson aka Arthur “fookin” Shelby in Peaky Blinders. Nessuna superstar, gioco di squadra e basso profilo. Nel crimine come nel cinema.