Il Libro di Henry, la recensione

Mescolando lo strappalacrime al thriller, Il Libro Di Henry sembra nato per mostrare il lato autoriale di Colin Trevorrow ma delude

Critico e giornalista cinematografico


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Se c’è una conseguenza positiva della crisi hollywoodiana dei film a budget medio è che operazioni come Il Libro di Henry non si fanno (quasi) più. Avallato dal nome di Colin Trevorrow, che alla Universal è di colpo diventato in grado di giustificare anche operazioni più piccole e rischiose (con Jurassic World è diventato il regista del quarto film di maggiore incasso di sempre), Il Libro di Henry tenta l’incredibile crossover tra cinema strappalacrime e thriller in un trionfo di registri mal mescolati.

Nonostante il cinema sentimentale molto spinto si muova sempre al limite del credibile, questa storia di un geniale bambino di 11 anni che elabora un piano e lo commissiona a sua madre, perché ha capito che il vicino di casa molesta la figlia di cui lui è un po’ innamorato, supera ogni confine. Non solo innesta una dinamica da Giustiziere della Notte in una storia che non è fatta per prevederla, senza curarsi di fornire a tutti delle reali motivazioni per agire come fanno, ma soprattutto non mostra mai davvero quel che vuole scongiurare. Talmente ha fiducia nei suoi personaggi e nella correttezza delle proprie idee da non aver bisogno di prove. Nessuno è testimone delle molestie, nessuno ne parla, nessuno le confessa, c’è solo un fortissimo sospetto e “l’inequivocabile” mutismo della bambina. Indizi sufficienti per la mamma interpretata da Naomi Watts per seguire il piano che il figlio genio ha descritto per filo e per segno su un libretto, che poi in realtà sarebbe lo spunto perfetto per un horror.

Con Jacob Tremblay (già visto e celebrato in The Room) che mostra sentimenti complessi a costituire l’elemento di maggiore interesse, Il Libro di Henry è l’idea che un regista come Trevorrow sembra avere del piccolo film d’arte, della vacanza da Jurassic World, del cinema d’autore “vero”. In realtà è l’opposto, invece che essere un’opera intima e sincera, onesta e capace di lavorare sul linguaggio e le singole componenti di un film in maniere approfondite e personali (questo fa un film d’autore vero), è uno dei prodotti meno sinceri dell’anno e più impersonali, fondato sul clichè del film importante e imperniato su una terribile scelta di casting. Naomi Watts, solitamente irreprensibile, è qui totalmente fuori parte e fuorviante, nonostante il suo personaggio sia descritto come inaffidabile, gestita dal proprio figlio come fosse lei la figlia (gioca anche ai videogiochi, tipico degli immaturi!), lei non lo sembra mai, anzi pare sempre molto equilibrata.

Con una svolta finale che mostra anche una certa vigliaccheria, sollevando tutti i personaggi dalle difficili (perché assurde) responsabilità che si erano presi, Il Libro di Henry nasce per dimostrare che Trevorrow sa essere regista fine e delicato ma è la peggior pubblicità possibile per lui. Nonostante sia un film piccolo infatti, lo stesso sembra aver subìto il processo di aggiustamenti, taglia, cuci e incolla che subiscono i film giganti, per come passa senza armonia tra diversi generi, intendendoli tutti nella maniera meno sfumata. E questo per non voler pensare che si tratti di una storia che in realtà mette in scena l’elaborazione di un lutto. In quel caso sarebbe proprio follia.

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