Il Libro della Giungla, la recensione

Più deciso, intellettualmente più onesto ma anche rispettoso del film d'animazione tanto quanto del libro originale, Il Libro della Giungla è una sorpresa

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Grazie a Dio lontano da Alice in Wonderland e più vicino invece alla Cenerentola di Kenneth Branagh, questo ritorno di un classico d’animazione Disney in live action non è una sua versione dark e fantasy come poteva esserlo stato Maleficient (una cioè in cui si espande una storia, creando un preambolo, spiegando le origini di ogni elemento, stabilendo delle forze in campo e fondando una mitologia), ma un riadattamento della fonte principale, Il Libro della Giungla di Rudyard Kipling, o meglio il complesso di storie che riguardano Mowgli contenute in quella raccolta di racconti e nella successiva Il Secondo Libro della Giungla.
Disney stesso andò vicino a farne una versione più dura del solare film d’animazione che conosciamo, è probabile che questo film di Jon Favreau sia quel che più si avvicina a quella prima idea.

Il Libro della Giungla del 2016 infatti comprende molto di ciò che la Disney cambiò e inventò (il personaggio di Re Luigi, totalmente assente nel libro, come anche il fatto che Kaa sia un personaggio negativo e non positivo o il carattere giocoso di Baloo), avvicinandosi però anche al tono del libro. Rispetto a Wolfgang Reitherman a Jon Favreau interessa profondamente l’idea che un uomo non appartenga alla giungla ma possa lo stesso abitarla a modo proprio (Kipling invece non aveva risposte e presentava la cosa come un problema continuamente in discussione). Se il cartone Disney era dominato da una morale per la quale ognuno deve ricongiungersi al proprio mondo e vivere con i propri simili, questo film invece afferma l’esatto contrario: si può essere diversi, mantenere le proprie individualità e lo stesso vivere insieme. Il fatto che i due film siano separati da più di 50 anni di evoluzione del costume della società non sembra un elemento trascurabile.

Tutto ciò senza negare la tradizione.

Come Cenerentola infatti, questo Libro della Giungla non si oppone al cartone che lo precede, ma ha un rapporto virtuoso con esso, cercando e trovando quelli che lì erano i punti cardine della storia. Pur cambiando un po’ l’intreccio (per il meglio!) il film continua a puntare sulle medesime scene madre per non dire le medesime melodie (che non diventano mai numeri musicali per fortuna ma rimangono piccoli momenti di canto).
Finalmente però la giungla è una casa e non un problema per Mowgli, un luogo in cui non dover essere lupo ma poter essere uomo. A caratterizzare il bambino cresciuto dai lupi per tutto il film è infatti la sua capacità di usare l’ambiente intorno a sè e così sovvertire molte regole. Gli altri animali li chiamano “trucchi” ma sono lo specifico umano: utilizzare oggetti e artefatti per fare ciò che il corpo non consente, dalle armi alle trappole fino ai salvataggi. Questo era assente nel cartone, qui però si sposa in toto quest’idea di un uomo che piega la natura alle proprie esigenze (come Robinson Crusoe, solitamente considerato l’opposto logico di Mowgli) con la possibilità di vivere assieme chi invece la natura la segue senza discuterla.

Se filosoficamente siamo in un territorio decisamente più complesso, moderno e affascinante, il vero gioiello del film è però l’impeccabile lavoro sulla computer grafica. La tecnica è mirabile, tuttavia a conquistare è l’idea che sta dietro di essa, quella che porta a compimento l’evoluzione più interessante dell’antropomorfismo nell’animazione degli ultimi anni.
Disney, che in un certo senso ha fatto da punto di riferimento nel campo dell’uso di animali in storie che li umanizzano durante il novecento, qui rimette al centro l’animazione animale con un realismo che non nega l’espressività. Gli animali di questo Libro della Giungla non somigliano per nulla agli uomini, mai, somigliano a se stessi, con una ricerca di dettaglio determinante, eppure i loro atteggiamenti umanizzati lo stesso riescono a restituire una serie di espressioni implausibili per una bestia che fanno da ponte tra le due razze.
Veri e falsi al tempo stesso con diverse sottigliezze, gli animali sono la materializzazione del fantastico in una storia che non ne avrebbe e che, anche negli sfondi e nella giungla, cerca e trova un’unione bellissima tra reale e fantastico, tra esotico e fotografico, mitico ed effettivo.

Doppiaggio italiano pieno di star in cui sembra che Giovanna Mezzogiorno (Kaa), Neri Marcorè (Baloo) e a sorpresa Giancarlo Magalli (Re Luigi) siano quelli più a proprio agio mentre Toni Servillo (Baghera) pare più adatto ai momenti in cui il suo personaggio è narratore della storia che a quelli in cui deve sottomettersi a dialoghi, atteggiamenti e  spirito da cinema hollywoodiano. In quei momenti appare goffo e i risultati non sono all'altezza del film.

Continua a leggere su BadTaste