Lettera al re: la recensione

C'è un romanzo di sessant'anni fa alla base di Lettera al re, la nuova serie fantasy di Netflix, e si vede

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Lettera al re: la recensione

C'è un romanzo di sessant'anni fa alla base di Lettera al re, la nuova serie fantasy di Netflix, e si vede. La storia si sviluppa a partire dalla più classica delle avventure dell'eroe prescelto, chiamato per caso a compiere una grande missione dalla quale dipende il destino del mondo intero. Nella trasposizione seriale del romanzo, l'adattamento ignora completamente tutto quel processo di revisione delle strutture del racconto epico che è tipicamente contemporaneo. Tutto è classico e proposto con una semplicità fuori dal tempo. Non è necessariamente un male, ci mancherebbe, ma questa serie non ha abbastanza personalità per diventare una nuova variazione sul racconto classico.

Tiuri è un ragazzo fisicamente debole, poco adatto a diventare un cavaliere, anche se la sua famiglia si aspetta questo da lui. Una notte, nel corso dell'addestramento con i compagni, tutti loro sentono una richiesta d'aiuto, ma Tiuri è l'unico a rispondere alla chiamata. Entra così in possesso di una lettera che deve essere consegnata al re di un regno lontano, per informarlo di una prossima minaccia. Tiuri potrebbe essere allora l'eroe di cui parla un'antica profezia, il campione della luce destinato a sconfiggere l'oscurità.

L'intreccio non entra molto più in profondità rispetto a questa breve sinossi. La serie abbraccia un manicheismo di fondo tenero, ma anche ingenuo agli occhi di uno spettatore contemporaneo. L'oscurità di cui si parla non è nemmeno una metafora, è letteralmente una massa oscura che rischia di coprire l'intero mondo fantasy. E la luce, da parte sua, è letteralmente quella forza destinata – tramite la più vaga e classica delle profezie – a combatterla per sconfiggerla. C'è un tentativo di costruire per Tiuri un legame drammatico personale con la missione che deve compiere, ma in fondo anche questo collegamento cade nel dimenticatoio di un'avventura che si trascina avanti per necessità.

Tiuri in particolare è un eroe passivo. Giusto, coraggioso, nobile d'animo, ma in fondo solo uno strumento narrativo chiamato a portare con sé qualcosa – la lettera – che già di suo era un mezzo per avviare la trama. L'intreccio semplice si trascina in avanti per necessità, attraverso una serie di tappe che rimpolpano la storia, ma non contribuiscono mai ad allargare la visione del mondo. Il worldbuilding ha l'orizzonte delle necessità di quel momento: se alla storia serve una pausa, ecco che ci sarà una deviazione, se alla storia serve più ritmo, ecco una piccola minaccia. A proposito di minacce, nemmeno quella rappresentata da Viridian, il cattivo della storia, è interessante. Basti pensare che lo vedremo praticamente confinato per tutti i sei episodi nella sua tenda con sguardo truce e capelli sulla fronte.

Qualche tentativo in più, va detto, è tentato con i giovani cavalieri che partecipano all'avventura. Ecco, qui forse chi appare buono non lo sarà davvero, e chi invece si presenta come irrecuperabile può maturare durante il viaggio e nascondere un cuore nobile. Ma è un po' poco per dare respiro all'intreccio. Nel cast sono presenti anche Andy Serkis e David Wenham, ma il loro ruolo è marginale. Allora, l'unico elemento vincente della serie sono i paesaggi. Lo show è stato girato in Repubblica Ceca e in Nuova Zelanda, e in quest'ultimo caso è una sincera emozione rivedere gli scenari di Il signore degli anelli in un altro fantasy. Certo, potrebbero risultare un elemento di distrazione, trasportandoci in un'altra vicenda fantastica, ma la serie riesce a sfruttarli bene con i mezzi a disposizione.

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