Les Amandier, la recensione | Cannes 75

Un parte della vita di Valeria Bruni Tedeschi romanzata per lo schermo è il trionfo dell'autoassoluzione e dell'indulgenza

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Les Amandier il film di Valeria Bruni Tedeschi, in concorso a Cannes

Nel grande cast corale di Les Amandier ogni spettatore può scegliere il personaggio che lo irrita di più. Se il bello maledetto e tormentato o la rossa vivace e sessualmente disinibita, se la ragazza di buona famiglia dai sentimenti sinceri o anche il maestro durissimo e venerato. Siamo in una scuola di recitazione degli anni ‘80, e dinamiche da Saranno famosi vengono applicate ad un pezzo di vera vita di Valeria Bruni Tedeschi, per l’occasione romanzata per noi con un’indulgenza verso di sé, la propria generazione, gli attori e quel mondo rappresentato che rompe qualsiasi misuratore di indulgenza e autoassoluzione usiate.

Con una buonissima fotografia sgranata, per dare il senso del racconto di un passato, e a contrasti alti, per enfatizzare i blu e la luce sui volti (valorizzando soprattutto la protagonista dagli occhi celesti e la carnagione chiara), unita ad un montaggio dalla sensibilità molto pop anni ‘80 (in linea con l’epoca raccontata), seguiamo le diverse storie che vengono intrecciate alternando meccanicamente momenti di farsa ad altri di vita vera senza che sia sempre chiaro cosa sia cosa, come fossero la stessa cosa, come se ciò che viene provato sul palco sia uguale a ciò che si prova fuori da esso. Sentimenti sparati in faccia, esagerati e soprattutto esposti ed esibiti dai personaggi davanti a sconosciuti, fieri di questo esibizionismo in un mondo in cui si percepiscono più sensibili degli altri.

Forse è perché sono giovani, più probabilmente perché sono attori in un film dedicato tutto a loro, alle loro facili fragilità, alle loro stranezze e stravaganze simpatiche (no). Personaggi a cui tutto è concesso nel nome di non è chiara quale benevolenza o tolleranza non concessa invece ad altri in una delle più flagranti forme di autoassoluzione sullo schermo viste negli ultimi anni. Se l’irritazione è un sentimento soggettivo più obiettiva è invece la farraginosa maniera in cui questo film cerca di creare tramite l’unione di tante piccole storie il senso di un momento storico e di una piccola comunità di ragazzi.

Stupisce tantissimo infatti la capacità di riempire due ore senza aver praticamente niente da dire. Due ore rette su un registro solo: sopra le righe. E come sempre se tutto è continuamente intenso allora niente è veramente intenso, perché non c’è nessuna costruzione di questa intensità, né la sua presenza ci porta da qualche parte. Questo cinema dell’indulgenza, che la professa e la vuole sollecitare se non proprio chiedere al pubblico, è intenso proprio per ammirare la sua intensità costruita ad arte. Per bearsene. Che va bene, ma che c'entriamo noi?

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