Lei mi parla ancora, la recensione
Con un'impostazione finalmente fuori dai canoni e un desiderio vero di lavorare sulle immagini, Lei mi parla ancora fa vero cinema
Questa volta Pupi Avati ha centrato il bersaglio. Nonostante molto intorno ad esso non sia proprio il massimo, nonostante la faciloneria del suo tono e i semplicismi di messa in scena permangano per buona parte del film, non ci sono dubbi che Lei mi parla ancora sia in grado di prendere di petto ciò che più gli sta a cuore, il nocciolo duro della propria storia, e affrontarlo senza troppi giri di parole, sempre con le immagini. Lo aiuta di certo la trama, la storia di un uomo anziano a cui muore la moglie nelle prime scene e che per il resto del film rievoca lei e la loro giovinezza anche a grazie ad uno scrittore che lo aiuta a fare un libro della sua vita, presta il fianco al racconto per immagini. Centrarlo però non era scontato.
I migliori invece hanno un tono sognante sospeso e mai definito, in cui tutto è poco chiaro se non i sentimenti, e le immagini servono le sensazioni invece della logica. Renato Pozzetto fa un grandissimo lavoro, impegnato come raramente si era visto in un ruolo che non è solo drammatico, ma ampio, tenero senza retorica (incredibile!). È lontanissimo dalla buona recitazione e dai toni sfumati, ma incarna una dolcezza che basta.
In questa maniera quando arriviamo al ritorno della moglie morta (in versione giovane, interpretata da Isabella Ragonese) inquadrata solo da un taglio di luce sulle scarpe in una notte che non è più chiaro se passata o presente e con una voce che sembra essa stessa uscire da quelle scarpe illuminata invece che dalla bocca che non vediamo, forse per la prima volta nella carriera di Avati si sente il sapore vero di Fellini e non quello della sua copia.