Lei mi parla ancora, la recensione

Con un'impostazione finalmente fuori dai canoni e un desiderio vero di lavorare sulle immagini, Lei mi parla ancora fa vero cinema

Critico e giornalista cinematografico


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Lei mi parla ancora, la recensione

Questa volta Pupi Avati ha centrato il bersaglio. Nonostante molto intorno ad esso non sia proprio il massimo, nonostante la faciloneria del suo tono e i semplicismi di messa in scena permangano per buona parte del film, non ci sono dubbi che Lei mi parla ancora sia in grado di prendere di petto ciò che più gli sta a cuore, il nocciolo duro della propria storia, e affrontarlo senza troppi giri di parole, sempre con le immagini. Lo aiuta di certo la trama, la storia di un uomo anziano a cui muore la moglie nelle prime scene e che per il resto del film rievoca lei e la loro giovinezza anche a grazie ad uno scrittore che lo aiuta a fare un libro della sua vita, presta il fianco al racconto per immagini. Centrarlo però non era scontato.

Ma è su tutto lo spunto iniziale della morte a segnare il film e dargli un tono per niente comune e molto sensibile. Lei mi parla ancora inizia con una morte e una reazione disperata a questa morte che non è costruita o impostata in nessuna maniera, apre il film con nulla prima di sé e si attacca a tutta la storia. Lo spunto funereo non abbandonerà più il film fino alla fine e pure i momenti che più guardano a Il posto delle fragole (ad un certo punto vediamo anche Il settimo sigillo proiettato) sono ammantati di un’aria da fine di tutto che invece il film di Bergman non aveva. Renato Pozzetto, rimasto da solo, vive ed esperisce la persistenza della memoria anche al di là della vita. La memoria stessa è una forma di vita dopo la vita, il paradiso non in Terra ma in testa che tuttavia, come in Il posto delle fragole, è abitato dal protagonista che ci interagisce come fosse la nostra realtà.

Il concetto in sé non è nuovo ma Lei mi parla ancora, fin dal titolo lo prende come una missione e ci insiste con una forza che in sé è il senso migliore delle ossessioni di Avati. Poi certo la voce fuori campo che racconta il passato e gli interessi dei personaggi riprendono un po' la dolcezza conciliatoria e sempre smussata di Avati. La parlata nell'obiettivo, la gente che guarda in finestra, un prete di provincia che si addormenta…. C’è anche un campionario di piccola Italia antica che non ha niente di eccezionale e molto di ripetitivo, la mitologia senza la forza del mito ma anzi usurata da mille spot pubblicitari. Sono i momenti peggiori del film, uniti alla trama che riguarda lo scrittore in crisi di Gifuni.

I migliori invece hanno un tono sognante sospeso e mai definito, in cui tutto è poco chiaro se non i sentimenti, e le immagini servono le sensazioni invece della logica. Renato Pozzetto fa un grandissimo lavoro, impegnato come raramente si era visto in un ruolo che non è solo drammatico, ma ampio, tenero senza retorica (incredibile!). È lontanissimo dalla buona recitazione e dai toni sfumati, ma incarna una dolcezza che basta.
In questa maniera quando arriviamo al ritorno della moglie morta (in versione giovane, interpretata da Isabella Ragonese) inquadrata solo da un taglio di luce sulle scarpe in una notte che non è più chiaro se passata o presente e con una voce che sembra essa stessa uscire da quelle scarpe illuminata invece che dalla bocca che non vediamo, forse per la prima volta nella carriera di Avati si sente il sapore vero di Fellini e non quello della sua copia.

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