La Legge Della Notte, la recensione

Nel solito mondo dei film di Ben Affleck nulla funziona più. La Legge Della Notte unisce in sè diverse tipologie di film e non riesce a farne una virtù

Critico e giornalista cinematografico


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Cappottone e capello in testa Ben Affleck porta negli anni '20 il suo cinema in cui crimine e legalità si scambiano i ruoli. Quella di La Legge della Notte è infatti di nuovo una storia in cui si sovvertono i consueti termini, i criminali sono corretti e i poliziotti corrotti, il mondo della mafia viene vissuto dal protagonista con le ferree regole dell’imprenditoria, quello della legalità è invece dominato dalle regole della corruzione.
La storia è vera ma non sembra proprio, è un drammone umido che dopo un inizio pieno di rapine, insulti ai boss mafiosi, regolamenti di conti e un incredibile rapporto padre-figlio (il primo è uno dei capi della polizia e il secondo un fuorilegge), si rifugia in Florida e cambia, diventa un film di salotti, amori proibiti e tentativi di salvezza.

È la solita storia di una vita violenta che non ti molla quando vuoi mollarla tu, di un animo corrotto che si fa strada verso un’impossibile redenzione, eppure non c’è niente di quel cinema pazzesco, secco e asciutto che Ben Affleck aveva mostrato nei suoi sorprendenti primi tre film (Gone Baby Gone, The Town e Argo). La Legge della Notte sembra proprio il contrario: un polpettone in cui tutto è dichiarato e gridato, in cui ciò che prima Affleck metteva in scena con piccole pennellate e con quell’abilità di far sembrare quasi incidentali i passaggi più importanti, qui è messo sotto il riflettore e illuminato fino allo sfinimento.

Il suo gangster che opera nella Florida a cavallo della fine del proibizionismo, intenzionato a trasformare il proprio racket in un giro legale, farsi una vita con una donna di colore e ripulirsi il nome, vive in tre film contemporaneamente. Ha una vita poliziesca, fatta di rapporti con il suo vice, con il poliziotto locale che ricatta ma con cui ha anche una virile stima e con il proprio boss che invece vuole mollare; ha una vita contro le istituzioni, messo in cattiva luce dal fatto che vuole sposare una nera, costretto a combattere il Ku Klux Klan e le sue derivazioni e contrapposto ad una specie di piccola santarella-predicatrice locale; e ha un vita da dramma familiare in cui il peso di un padre come Brendan Gleeson, appartenente alle forze dell’ordine, sembra infestargli la vita e condizionarne i rapporti.

Argo riusciva ad essere un dramma con il cuore tenero di commedia, mescolava i toni tenendo al centro una parte insospettabilmente divertente mentre inizio e fine non transigevano sulla serietà. Il miracolo non accade di nuovo e i toni del film tracimano l’uno nell’altro, svilendo, annullando e sminuendosi a vicenda. In La Legge Della Notte, a partire dalla color correction ambrata, ogni elemento lotta contro la coerenza. Se il Ku Klux Klan è una macchietta che tutti prendono implausibilmente sul serio, gli amori perduti sono esagerati sguardi languidi su foto sgualcite e tutta questa buffonesca melassa uccide la durezza delle parti più serie e criminali. Anche inseguimenti e sparatorie ne risentono, per non dire del gran finale d’azione, che sembra inquinato dall’indecisione di questo film né carne né pesce che, forse proprio per questo, ha bisogno continuamente di sottolineare tutto due-tre volte, come fosse diretto da un regista insicuro e alle prime armi.

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