Legend, la recensione
Pesantemente influenzato dall'immaginario di Scorsese, Legend non trova la sua strada, disinnesca la forza di Tom Hardy e ripiega sulle idee più semplici
Come uno Scorsese dei poveri (traslato in Europa), Helgeland scrive e gira un period movie per unire la nostalgia alla violenza, facendo della seconda una questione di appartenenza. Legend è un racconto di periferia e tribù, in cui la mafia è un modo di vivere, una grande organizzazione in cui gli affari si fondono con la vita di quartiere. Composta da amici e soliti noti, la mafia non è un’azienda come la famiglia di Il padrino o una brigata scalcinata come nei film britannici di Guy Ritchie, ma prima di tutto un fatto culturale. Nel crimine ci si nasce e ci si cresce, farne parte vuol dire appartenere alla propria zona. Tutto fantastico, peccato non siano idee di Helgeland ma di Scorsese. Quello che invece appartiene a Legend, è la maniera in cui i suoi personaggi abitino questa realtà. E non è un bel vedere.
Purtroppo il film finisce qui, finisce in queste che sono le svolte e le parabole più banali immaginabili. Legend non riesce ad andare più in là del proprio naso, non riesce a fare qualcosa con la storia che racconta e si accontenta di dire quel che tutti già si aspettano di sentire.