Leave No Traces, la recensione | Venezia 78

Leave No Traces è un notevole affresco della Polonia comunista negli anni Ottanta, con cui Jan P. Matuszyński conferma la sua grande capacità registica

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Leave No Traces, la recensione | Venezia 78

Jan P. Matuszyński aveva fatto solamente un altro film prima di Leave No Traces ovvero The Last Family, un ritratto meraviglioso, dolce e malinconico del pittore surrealista polacco Zdzisław Beksiński e della sua famiglia, quasi completamente ambientato in un interno. In Leave No Traces tutto diventa decisamente più grande: aumenta il respiro della storia, la dimensione degli spazi filmati, il numero di personaggi coinvolti. Matuszyński riesce però a gestire questa nuova complessità con una facilità incredibile, dando al film un ritmo incalzante che porta con grande forza dentro al suo mondo spietato, fatto di drammi taciuti, di rimorsi e di ambizioni soffocate.

Leave No Traces è un notevole affresco della Polonia comunista a inizio anni Ottanta e guarda  quel contesto attraverso la lente di un reale caso di cronaca, ovvero quello che il 12 maggio 1983 vide la brutale uccisione del giovane studente Grzegorz Przemyk da parte della Milizia Civica. Al pestaggio assistette soltanto l’amico Jurek Popel che, deciso ad avere giustizia, lottò assieme alla madre di Grzegorz, la famosa poetessa Barbara Sadowska, per far emergere la verità. Un’impresa per niente facile visto il continuo ostruzionismo e insabbiamento applicato a più livelli dalle autorità comuniste, che cominciarono a perseguitare Jurek rendendo la vita impossibile a lui e alla sua famiglia (e mettendo in mezzo altri innocenti per mere macchinazioni politiche).

Matuszyński si riconferma qui un regista incredibile per la sua compattezza visiva, per la sua capacità di coinvolgere tantissimo la spettatore nella narrazione senza mai esporsi, rimanendo invisibile ma imprimendo allo stesso tempo un preciso rigore alla storia. Leave No Traces ha infatti una freddezza quasi glaciale per come approccia i personaggi e le scene, lascia fare tantissimo agli interpreti mentre Matuszyński si mette da parte e con una semplice inquadratura già ci dice tutto quello che deve dire su quei personaggi. Dato questo modus operandi, il film funziona benissimo perché ha dalla sua degli interpreti che regalano tutti quanti delle performance di una naturalezza ipnotica. La migliore è in questo senso l’attrice Aleksandra Konieczna, che già in The Last Family aveva mostrato il suo spessore ma che qui, nel ruolo della procuratrice, regala un’interpretazione più rischiosa (è un personaggio esagerato, nei gesti e nella cattiveria) e ancora più sbalorditiva.

Leave No Traces riesce a raccontare ottimamente sia i procedimenti con cui il regime attuava la sua pulizia d’immagine sia le conseguenze umane e pratiche della persecuzione sui cittadini. Il film non è però per niente affabulatorio verso i suoi protagonisti, che non stanno mai completamente dalla parte del bene o nella completa integrità morale. La sceneggiatrice Kaja Krawczyk-Wnuk ha fatto un gran lavoro di cesello sulle vicende e sui dialoghi, creando un mondo di ombre morali e sfumature emotive a cui Matuszyński ha saputo dare la decisiva coerenza.

Il film non vuole portarsi dietro chiari ammonimenti che non siano quelli che lo spettatore si forma da sé nella sua testa mentre assiste alle vicende. Il discorso finale della madre di Grzegorz è infatti l’unico j’accuse, l’unico momento in cui si punta chiaramente il dito verso uno stato di cose. L’unico difetto del film è forse la sua durata: nel tempo che ha a disposizione dipinge sì in modo sempre più dettagliato la sua realtà, ma purtroppo nel raccontare certe dinamiche si ripete anche troppo. Per tutto il resto Leave No Traces è davvero un ottimo film, che conferma la capacità registica di Jan P. Matuszyński.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Leave No Traces? Scrivetelo nei commenti!

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