Le vele scarlatte, la recensione | Cannes 75

Un artigiano di grande capacità diventa un reietto per amore di una figlia non sua, un altro artista contro la società per Pietro Marcello

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Le vele scarlatte, il film d'apertura della Quinzaine di Cannes

C’è in Pietro Marcello una strana forma di fascinazione per gli artisti, o meglio per un certo tipo di artista. Da quando fa film di finzione sceglie di adattare storie in cui le loro figure sono spigolose, è innamorato del lato autodistruttivo di chi fa un lavoro artistico e delle persone che rifiutano relazioni convenzionali con il resto del mondo, che non si adattano, non mediano, non si piegano. Subendone le conseguenze. Forse Martin Eden ne è stato l’esempio migliore, di certo il più chiaro, ma anche Le vele scarlatte propone quel tipo di figura, un uomo durissimo, un falegname, che fatica a trovare un posto per via delle sue reazioni e poi anche del suo carattere. Artisti ma mai abili promotori di se stessi, geniali ma mai capaci di intrattenere rapporti formali, farsi amicizie e agevolare il proprio percorso nell’industria culturale.

Certo, non è proprio un’industria culturale quella in cui si muove Raphael, più il mondo dell’artigianato. Reduce con grandi abilità da falegname, impiegato nella costruzione e subito in luce per capacità, precisione e affidabilità. Una storiaccia che coinvolge una figlia che non è davvero sua figlia lo renderà un emarginato, e anche l’atteggiamento che la figlia, diventata adulta tiene nei confronti del resto della società non aiuterà una forma di integrazione, questo nonostante non smetta mai di realizzare mirabili creazioni in legno in cui sublimare un apparenza scontrosa.

Per Marcello il punto sembra essere sempre la storia di figure in opposizione alla società del loro tempo e la fine che queste fanno. Gli altri vincono sempre, il sistema economico, relazionale ma anche religioso, politico e sociale è un mostro intoccabile, chi si oppone ne viene schiacciato. Sono storie in costume, di un tempo passato, ma come nei migliori melodrammi l’ambientazione d’epoca serve a poter rendere più evidenti certi contrasti che esistono pure oggi ma in forme meno clamorose. È forse questo il rapporto con la storia che cerca sempre con le sue immagini documentarie, tagliate e musicate con un amore e una passione tangibili per la semplicità e le figure che le abitano, inserite nel racconto di finzione (qui molto moderate rispetto al solito e più che altro inserite in testa), mai una nostalgia ma anzi un modo di indagare bene dinamiche che oggi sono solo meno visibili. Come se nel guardare il passato si chiedesse, nel bene o nel male: “Dove è finito questo?”.

Di certo Le vele scarlatte non ha la forza dinamica di Martin Eden, è un film molto più comune e anche la sua ricostruzione d’epoca suona meno inventiva e coinvolgente del precedente. Nonostante lo stile applicato sia talmente lo stesso da far pensare ad un filmone unico (l’ossessione per la magic hour e le riprese al tramonto è quasi identica, come anche la messa in scena di un passato mai modernizzato ma anzi attraverso una luce che ne ribadisca l'essere lontano nel tempo), la scrittura è decisamente più sfilacciata e nonostante Raphael Thiery interpreta in maniera corretta il protagonista, non può avere la carica animale di Luca Marinelli, quel modo raro di animare le scene con la sua sola presenza. E ci accorgiamo ora che ce ne sarebbe stato bisogno anche qui.

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