Le vele scarlatte, la recensione | Cannes 75
Un artigiano di grande capacità diventa un reietto per amore di una figlia non sua, un altro artista contro la società per Pietro Marcello
C’è in Pietro Marcello una strana forma di fascinazione per gli artisti, o meglio per un certo tipo di artista. Da quando fa film di finzione sceglie di adattare storie in cui le loro figure sono spigolose, è innamorato del lato autodistruttivo di chi fa un lavoro artistico e delle persone che rifiutano relazioni convenzionali con il resto del mondo, che non si adattano, non mediano, non si piegano. Subendone le conseguenze. Forse Martin Eden ne è stato l’esempio migliore, di certo il più chiaro, ma anche Le vele scarlatte propone quel tipo di figura, un uomo durissimo, un falegname, che fatica a trovare un posto per via delle sue reazioni e poi anche del suo carattere. Artisti ma mai abili promotori di se stessi, geniali ma mai capaci di intrattenere rapporti formali, farsi amicizie e agevolare il proprio percorso nell’industria culturale.
Per Marcello il punto sembra essere sempre la storia di figure in opposizione alla società del loro tempo e la fine che queste fanno. Gli altri vincono sempre, il sistema economico, relazionale ma anche religioso, politico e sociale è un mostro intoccabile, chi si oppone ne viene schiacciato. Sono storie in costume, di un tempo passato, ma come nei migliori melodrammi l’ambientazione d’epoca serve a poter rendere più evidenti certi contrasti che esistono pure oggi ma in forme meno clamorose. È forse questo il rapporto con la storia che cerca sempre con le sue immagini documentarie, tagliate e musicate con un amore e una passione tangibili per la semplicità e le figure che le abitano, inserite nel racconto di finzione (qui molto moderate rispetto al solito e più che altro inserite in testa), mai una nostalgia ma anzi un modo di indagare bene dinamiche che oggi sono solo meno visibili. Come se nel guardare il passato si chiedesse, nel bene o nel male: “Dove è finito questo?”.