Le terrificanti avventure di Sabrina (quarta stagione): la recensione
La frettolosa cancellazione di Le terrificanti avventure di Sabrina ci lascia in eredità una quarta stagione confusionaria e insoddisfacente: la nostra recensione
Non c’era, forse, alcuna reale possibilità che Le terrificanti avventure di Sabrina finisse bene: l’improvvisa cancellazione estiva da parte di Netflix, (più o meno) ufficialmente dovuta alla pandemia di COVID-19 e a fronte di un progetto iniziale che prevedeva almeno altri dieci episodi prima della chiusura, era suonata fin da subito come una condanna. Dopo tre stagioni, durante le quali la serie aveva un po’ faticosamente ma efficacemente trovato la sua strada e la sua identità, sembrava che CAOS fosse finalmente pronta a cominciare; e invece Roberto Aguirre-Sacasa e il resto del team si sono visti costretti a comprimere tutto quanto (archi da concludere, parentesi da chiudere, situazioni in sospeso da risolvere) nell’arco di otto episodi: un’impresa impossibile, e il risultato finale lo dimostra.
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La quarta stagione, invece, è solo frettolosa. Parte da dove l’avevamo lasciata: dopo averci presentato un personaggio costantemente diviso tra umanità e immortalità, tra Terra e Inferno, tra Spellman e Morningstar, CAOS portava tutto sul piano letterale sdoppiando Sabrina in due; e proprio questo dualismo (insieme alle oscure macchinazioni di Faustus Blackwood) è alla base di tutto quello che succede in quest’ultima stagione. La coesistenza di due Sabrine (Sabrinas?) è un paradosso, e come chiunque abbia esperito almeno un’opera che parla di universi parallelli e doppelganger sa bene i paradossi di questo tipo non portano mai a nulla di buono; e infatti Greendale diventa il centro di un’apocalisse che, in ossequio alla regola non scritta che vuole che ogni stagione debba superare la precedente in ambizioni e portata, minaccia di spazzare via non solo l’umanità, l’inferno e il paradiso ma l’intera esistenza (di cosa? In generale).
Ogni episodio diventa così una scusa per citare questa o quell’opera di H.P. Lovecraft – alcune più esplicitamente (La maschera di Innsmouth nell’episodio dedicato al Weird), altre in maniera più sfumata (la presenza di Baron Samedi, figura legata al vodou haitiano ma anche a Nyarlathotep) –, oltre che, come da tradizione per la serie, per tirare in ballo altri pezzi di mitologie varie ed eventuali, dal vaso di Pandora alla Lancea Longini. CAOS è sempre stata un frullato di riferimenti, e la quarta stagione non fa eccezione – il problema è che per la prima volta questi riferimenti non sono organici al racconto ma diventano una serie di dei ex machina (o MacGuffin, se preferite) utili a risolvere snodi narrativi altrimenti spinosi, e a tirare fuori gli autori da una serie di vicoli ciechi. La situazione peggiora con il procedere degli episodi, al punto che gli ultimi due virano senza paura sul meta- più spinto e precipitano verso una conclusione da mani nei capelli.
C’è poi il problema che CAOS è sempre stata una serie che parlava anche di altro: di adolescenza, dei dolori della crescita, di accettazione delle diversità, di amore, anche di sesso; tutti elementi che nella quarta stagione diventano ostacoli alla narrazione, perché non c’è tempo di approfondirli o integrarli per bene (c’è un’intera sottotrama dedicata a Sabrina e Rosalind che diventano rappresentanti degli studenti di Baxter High che sembra incollata con un post-it sul resto), solo per risolverli il più in fretta possibile per non lasciare alcuna parentesi aperta. La quarta stagione di CAOS procede così su due binari paralleli: da un lato ci sono gli orrori cosmici da sconfiggere, dall’altro ci sono una serie di personaggi, e di coppie di personaggi, i cui archi bisogna chiudere a tutti i costi. A qualcuno (Rosalind, per esempio, o le zie Zelda e Hilda) va quasi bene, altri invece (Prudence, Theo e Robin, Harvey) vengono de-tridimensionalizzati e retrocessi a semplici funzioni narrative, alle quali dedicare qualche minuto per poter dire “visto? Ora hanno un finale anche loro”.
E infine, ovviamente, c’è Sabrina: dopo un inizio balbettante, la povera Kiernan Shipka stava finalmente cominciando a trovare la sua dimensione, e lo sdoppiamento di personalità indubbiamente la aiuta a caricarsi sulle spalle il peso di quest’ultima stagione. Il problema è che, vuoi per necessità narrative, vuoi per la fretta di chiudere tutto, nella quarta stagione Sabrina inanella una serie di scelte e decisioni che non solo hanno poco senso, ma vanno contro tutto quello che le prime tre stagioni ci avevano detto su di lei e su quanto aveva imparato, sulla sua identità e i suoi poteri. Non vogliamo entrare nel dettaglio, ma non è accettabile che giunti alla quarta stagione Sabrina faccia ancora gli stessi errori e abbia ancora gli stessi difetti che aveva ai tempi della prima, e che addirittura faccia dei passi indietro nel suo percorso di crescita, utili solo a portare avanti la storia; a tratti ci troviamo di fronte a una Sabrina irriconoscibile, un personaggio diverso da quello che era stato costruito fin lì (e parecchio più insopportabile, tra l’altro).
Non sappiamo se le cose sarebbero andate diversamente se Aguirre-Sacasa avesse avuto a disposizione altri dieci episodi per chiudere la serie, ma non è difficile pensare che i progetti iniziali fossero più ambiziosi e meno confusionari di quello che ci ritroviamo oggi tra le mani. Che sono otto episodi più o meno trascurabili, con qualche picco qualititativo (pochi), parecchie cadute di stile, di tono, di idee, e i cinque minuti finali tra i peggiori che si siano mai visti in TV probabilmente dai tempi di Dexter (e sui quali ci sono già discussioni feroci, per motivi che vi saranno chiari quando li vedrete). Peccato: Le terrificanti avventure di Sabrina avrebbe avuto bisogno di tempo per respirare e crescere, e invece la pandemia e una certa confusione creativa la condanneranno all’oblio dei “sarebbe”.