Le strade del male, la recensione
Un cast di volti noti in stato di grazia non basta a salvare questo elegantissimo pasticcio
Lo è nella finzione narrativa, visto che racconta la storia di Arvin Russell (Tom Holland), della sua famiglia, del suo mondo, un mondo nel quale, come gli spiega didascalicamente il padre Willard (Bill Skarsgård), “there’s a lot of no-good sons of bitches”.
Per essere un film di cattivi ragazzi, Le strade del male è tutto tranne che cattivo. Vuoto, vacuo, superficiale, un esercizio di stile; ma cattivo no, non ci riesce, ed è solo il primo dei suoi problemi.
Stanno tutti male
Stanno tutti male, in Le strade del male; è un film di gente triste, tormentata dagli spettri del passato, emotivamente stitica, impegnata nel futile tentativo di liberarsi dalla pesante eredità dei propri genitori. Tratto da un romanzo di Donald Ray Pollock, che qui funge anche da narratore onnisciente e onnipresente che passa un terzo del film a spiegare a voce cose che si potrebbero invece dimostrare con la messa in scena, è un’epica intergenerazionale che orbita intorno a due minuscole cittadine americane, Knockemstiff, Ohio e Coal Creek, West Virginia, e alla varia umanità che le abita – umanità che, come da tradizione di certi noir di provincia alla fratelli Coen, nasconde dietro la facciata di rispettabilità, orrendi segreti di ogni tipo e di varia natura, tutti riconducibili in qualche modo a un peccato capitale a vostra scelta (con la lussuria a farla da padrone).
È un setting che si può definire alternativamente “classico” o “vecchio e superato”, una storia di redneck iperreligiosi che copre circa un decennio a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso e che a tratti assomiglia a una recita scolastica popolata di archetipi e maschere teatrali: c’è lo sceriffo implicato con la criminalità locale (Sebastian Stan), il predicatore di paese che approfitta della sua voce suadente e del suo ciuffo ribelle per portarsi a letto – o in camporella, come si diceva un tempo – le sue giovani e timorate pecorelle smarrite (Robert Pattinson in overacting costante e un po’ fuori luogo in un film di gente che pronuncia in media una parola ogni quindici secondi), un altro predicatore talmente fanatico che per dimostrare che Dio lo ama si versa in testa un barattolo di ragni (Harry Melling, sempre a proposito del passaggio dai film per bambini a quelli per adulti), c’è persino una coppia di serial killer (Jason Clarke e Riley Keough) che sembrano la versione trailer trash di Woody Harrelson e Juliette Lewis in Natural Born Killers.
Presepe morente
C’è tutto in Le strade del male, un enorme presepe che supera i confini statali e abbraccia un pezzo d’America che più che reale sembra un luogo dell’anima; eppure a guardare meglio non c’è niente, solo una serie di belle statuine che da sole rimangono immote e che, quando si cambiano d’abito e si vestono da plot point, cominciano a muoversi e a trascinarsi su uno sfondo affascinante e d’impatto e tratti persino da cartolina, ma che a una seconda analisi assomiglia pericolosamente a tutti gli altri Stati Uniti rurali e un po’ gotici (nell’accezione americana del termine) che affollano cinema e letteratura d’oltreoceano – da Cormac McCarthy a Joe Lansdale ai succitati fratelli Coen. Non esistono archi narrativi, evoluzioni, introspezioni, in Le strade del male: solo eventi che si susseguono. Fa eccezione il personaggio di Arvin, il vero cuore della storia nonché l’unico che nel corso del film segue una qualche forma di percorso di crescita e cambiamento: intorno a lui il nulla, condito di banalità.
Né aiuta che il regista Antonio Campos non sappia decidersi fino alla fine su che film vuole girare, e le provi un po’ tutte senza mai trovare una strada. All’inizio Le strade del male sembra una qualche forma di western moderno, un continuo alternarsi campi lunghi su paesaggi desolati e primi piani strettissimi sugli occhi altrettanto strettissimi (dal sole o dalla tensione prima di sparare un colpo di pistola) dei suoi personaggi. Poi il film vira al thriller, si lascia andare a qualche tentazione tarantiniana iperestetizzata (soprattutto quando ci sono di mezzo Keough e Clarke), tenta la strada del melodramma, senza mai decidersi su quale sia la sua vera identità, su che cosa stiamo in ultima analisi guardando a parte la storia di un gruppo di persone che più o meno casualmente si trovano a interagire.
Vuoto pneumatico
Le strade del male vorrebbe essere un film corale, una collezione di vignette che convergono in un unico climax. Il problema è che, dove la natura non lineare del romanzo di partenza giocava a suo favore perché la moltiplicazione dei punti di vista dava modo all’autore di analizzare ogni pensiero e ogni messaggio da diverse angolazioni, la stessa operazione trasformata (e piuttosto pedissequamente) in sceneggiatura per il cinema diventa un pasticcio ingestibile, un continuo saltellare tra location e linee temporali per giustificare retroattivamente quello che si è visto nella scena precedente. Qui e là Campos è addirittura costretto a riciclare sequenze già viste mezz’ora prima, forse perché divorato dal dubbio di non essersi spiegato abbastanza, di non aver detto (e non mostrato) tutto quello che serve.
Ne risultano due ore abbondanti di scenette sconclusionate e senza alcun amalgama, tenute a galla dalla prestazione universalmente eccellente dell’intero cast e da una certa innegabile curiosità di scoprire come farà il film a chiudere tutte le parentesi aperte fin lì. Ci riesce (non tanto per merito del film quanto del romanzo), ma il risultato è insoddisfacente, insipido, piacevole per gli occhi e se vi piace vedere gente che recita bene, ma vuoto e senza nulla di interessante da dire – sulla condizione umana, sulle colpe dei padri che ricadono sui figli, sul concetto di peccato e di pentimento e di salvezza, tutti temi che vengono enunciati ma non vengono mai realmente trattati, perché Le strade del male è interessato solo alla superficie.
Le strade del male è disponibile su Netflix.