Le Mans '66 - La Grande Sfida, la recensione
Un rigido western su pista, una storia di amicizia tramite il lavoro, pura etica americana. Questo anima Le Mans '66. James Mangold è imbattibile
Le Mans '66 - La Grande Sfida, di James Mangold - la recensione
Qualsiasi film diriga James Mangold non riesce a non farne un western, e questo è ciò che lo rende grande. Sia la storia degli ultimi giorni di Wolverine in una linea temporale alternativa di Logan, sia la storia di una cittadina di poliziotti e dell’agente che la pattuglia di Copland. E anche Le Mans ‘66 è puro western sotto sotto, quello del John Ford di I Cavalieri del Nord Ovest in cui l’etica dei soldati il loro spirito di fratellanza e il loro attaccamento gli uni agli altri (con tutti i difetti di cui ognuno è portatore) è contrapposta all’etica o alla sua mancanza degli ufficiali. Qui è piloti e costruttori contro i funzionari della Ford ma poco cambia, la maniera in cui si stringono le mani, si guardano gli uomini e soprattutto quella in cui è evidente la necessità di prendere decisioni difficili parla da sé.
Alla base ci sarebbe la stessa lezione di Giorni di Tuono, cioè che un grande cuore va scolpito con la temperanza per poter arrivare ad una vittoria umana e sulla pista. Nel film c’è di più, la storia di una vittoria raccontata con la tecnica prima di tutto, con una passione per filmare le corse che si traduce in 40 necessari minuti finali centrati sulla 24 ore per la quale i protagonisti si sono preparati lungo tutto il film. E siccome Mangold se c’è una cosa in cui eccelle è chiudere i film, qui avremo un sottofinale fantastico, crepuscolare a suo modo ma che rafforza l’idea di aver assistito non ad una storia di scuderie rivali quanto ad una di uomini che il lavoro ha fatto diventare amici, un sodalizio professionale pieno di sentimento, come sempre pieno di sentimento è l’ideale americano del lavoro.