Le leggi della frontiera, la recensione

Le leggi della frontiera trova il suo motivo d’interesse nel far leva sull’impietosa disamina del disagio di una nazione e di una generazione

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È calda l'estate a Girona, ma tutto appare freddo e inquieto. Siamo nel 1978: Francisco Franco è morto da tre anni e la Spagna si avvia verso "una nuova era", ma la realtà nei fatti non sembra così migliorata. Sono gli anni della movida, delle feste sfrenate, ma il divertimento appare meccanico, solo di facciata. Questa è l’atmosfera che si respira in Le leggi della frontiera, nuova produzione spagnola targata Netflix. Nacho (Marcos Ruiz) è un diciassettenne figlio di una famiglia benestante che, lavorando in una sala giochi, viene a contatto con Zarco (Chechu Salgado) e Tere (Begoña Vargas), due ragazzi provenienti dai quartieri popolari. Prendendosi una cotta per la ragazza, decide di unirsi a loro, attraversando la frontiera del titolo (un ponte sul fiume Ter che separa i due mondi) per venire coinvolto in furti e rapine che si fanno sempre più grossi, fino a destare l’attenzione delle forze dell’ordine.

Il romanzo omonimo scritto da Javier Cercas, apprezzato giornalista per El País, è formato da interviste dirette ai personaggi realizzate da un reporter intenzionato a scrivere una biografia di Zarco, il più famoso giovane delinquente catalano. Allo stesso modo, l’adattamento diretto da Daniel Monzón (Cella 211) fa prevalere lo spaccato sociale/generazionale, prendendosi tempo per approfondire caratteri e ambienti, rispetto all’intreccio da Heist movie, che prende il sopravvento solo nell’ultima parte.

I giovani che il protagonista incontra sono in preda a un malessere e a un’inquietudine che cercano di vincere attraverso stupefacenti e delinquenza. Quest'ultima però non appare come un tentativo di rivalsa dalla loro condizione o una rivendicazione contro i genitori o le istituzioni, ma solo l’ineluttabile necessità, l’unica soluzione per sopravvivere. È un momento cruciale per il loro Paese e per il mondo intero, eppure gli importanti avvenimenti storico/politici (come l’elezione di Papa Giovanni Paolo II) restano sullo sfondo, solo un eco del televisore, nient’altro che oggetto di derisione da parte dei giovani. C'è afa, ci si veste in canottiera e pantaloncini, eppure la fotografia gioca su tonalità scure che rendono l’atmosfera raggelata e lugubre, sui bollenti corpi al sole si posano ombre scure e anche il sesso è completamente raffreddato. Così, piuttosto che la parabola del protagonista, l'attrazione verso un mondo completamente diverso, a emergere è la malinconia dei suoi nuovi amici, non l'ebrezza nel compiere i loro atti, ma solo la spossatezza. E in questo modo il film sorprende, dando allo svolgimento toni inaspettati.

Lo sguardo del regista sta vicino ai suoi personaggi ritraendoli senza moralismo né pregiudizi, ma con occhio quasi chirurgico in quei momenti di sfogo, breve parentesi dalla loro condizione da cui è impossibile scappare. Quanto invece il giudizio è netto nei confronti dei poliziotti che si mettono sulle loro tracce, che non lesinano a ricorrere alla violenza. E così, proprio quando le due forze in gioco si contrappongono, è evidente a chi lo spettatore deve rivolgere la propria apprensione. Insomma, Monzón sa decisamente da che parte stare, giocando nuovamente contro le aspettative.

Le leggi della frontiera trova dunque il suo motivo d’interesse nel fare leva sull’impietosa disamina del disagio di una nazione e di una generazione. Peccato come nell'epilogo il soffermarsi sulle dinamiche sentimentali tra il protagonista e la sua bella e un’agnizione che sa di telenovela annacquino un po’ il risultato finale, come un ritorno su binari melensi. Ma poi l'immagine conclusiva è particolarmente evocativa e ci costringe a ripensare a tutto quello che abbiamo visto in precedenza, ribadendo il tono d'amarezza dominante. Notevole e inaspettato, per un film pubblicizzato come il racconto "di un'estate di furti, rapine, amore e altre avventure".

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