Le ladre, la recensione

Le ladre trova il suo senso nelle piccole variazioni che innesta nella struttura tipica del genere: molto più nei personaggi e nel tema che nella trama, il film di Laurent propone una buona variazione sul tema della retorica bondiana

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La recensione di Le ladre, disponibile su Netflix dal 1 novembre

Adattato dal fumetto “La Grande Odalisca” di Bastien Vivès, Le ladre di Mélanie Laurent è, più che un buon film di spionaggio, un ottimo racconto di un’amicizia femminile. Con Laurent stessa nei panni di una simil Bond girl da un passato misterioso, Adèle Exarchopoulos come la sua spalla e controparte vulcanica e Manon Bresch nel ruolo della novellina da formare, Le ladre funziona e appassiona non certo per la trama (decisamente banale) ma in virtù delle sue attrici e della fresca vitalità dei loro personaggi (la coppia Laurent/Exarchopoulos), inquadrate tra lo stereotipo spy e il ritratto personale con un’ironia e una dolcezza che superano ogni pretesa di trama.

La storia (scritta da Cédric Anger, Christophe Deslandes e Jérôme Mulot) non potrebbe essere più tipica: due ladre professioniste specializzate nel furto di diamanti decidono di smettere con i rischi di quella vita per provare a essere “normali”, ma la loro cattiva madrina (Isabelle Adjani) mette loro i bastoni fra le ruote. Convinte a fare un ultimo grande colpo, Carole ed Alex e la nuova alleata Sam daranno il tutto per tutto per provare ad essere libere.

La volontà di riscatto guidata dall’obiettivo di diventare comuni è una delle caratteristiche più ricorrenti dello spy/action, genere giocato sulla performatività del fisico quanto sui dilemmi morali di un’identità divisa tra due stili di vita. Le ladre gioca su questo terreno facendo piuttosto goffamente la parte performativa (le scene di inseguimento e di azione vera e propria sono lente, poco dinamiche, poco inventive) ma compensando alla grande con il bel dualismo che crea tra donne altamente funzionali sul lavoro quanto sensibili, problematiche e sentimentalmente deboli nel privato. Si tratta di una contraddizione che sta solo nei termini e che Le ladre tira fuori dallo stereotipo narrativo (o si è forti o si è sensibili) a favore di una femminilità raccontata nelle sue dinamiche relazionali, come forza di gruppo dove ogni singolo carattere aggiunge qualcosa ma necessita delle compagne per arrivare al suo massimo potenziale.

Il dilemma identitario di Le ladre è, in questo senso, una carta falsa: loro sanno già chi vogliono essere, ciò che le divide dall’obiettivo è il mero percorso, l’ostacolo è pratico e ha spesso sembianze maschili. Gli uomini sono in Le ladre “pupazzi “che servono ad evidenziare i tratti delle protagoniste, sono funzioni narrative o avversari da battere ma mai bersagli retorici. Alex, anzi, alterna la sua freddezza da cecchino con un desiderio sfrenato di innamorarsi, di essere debole, per cui la presenza maschile è essenziale. Ad ogni modo il villain è una donna, la vera battaglia si gioca tra di loro - il resto è accessorio.

Le ladre trova quindi il suo equilibrio e il suo senso nelle continue e piccole variazioni che innesta nella struttura tipica del genere: molto più nei personaggi e nel tema che nella trama (guidata dal solo conflitto esterno, perché le protagoniste sanno già chi sono e cosa vogliono fin dall’inizio - devono solo ottenerlo), il film di Laurent propone una buona variazione sul tema della retorica bondiana, creando un suo piccolo universo che, volendo, si apre alla serializzazione.

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