Le Fil, la recensione | Cannes 77

Il ritorno alla regia di Daniel Auteuil funziona poco come cinema di genere e ancora meno quando prova a dire di più.

Condividi

La recensione di Le Fil, il film diretto e interpretato da Daniel Auteuil presentato a Cannes 77

Quando vuole essere un film di genere Le Fil è corretto ma convenzionale, lasciando sperare che esplori il nucleo tematico che si intuisce sotto il dramma giudiziario. Appena si decide a farlo (quindi non prima di due terzi) la speranza diventa subito che faccia marcia indietro, limitandosi al giallo un po' soporifero e risparmiando la filosofia da due soldi sul sistema giudiziario, la colpa e la mostruosità nascosta in bella vista. Come attore Daniel Auteuil è indiscutibile - anche se qui fa il minimo sindacale; ma come regista è colpevole alternativamente di mancanza di polso e, quando prova un po' di più a fare l'estroso, di simbologie visive talmente telefonate che tanto varrebbe far apparire la scritta "attenzione sottotesto".

Sono dieci anni che Jean Monier (Auteuil) non accetta un caso come avvocato difensore. Decide di tornare in aula per difendere un uomo (Grégory Gadebois) accusato di aver ucciso la moglie, e che però sembra l'assassino meno probabile del mondo. Impacciato, un po' tonto, adora sia lei che i figli. Per Monier quando si difende qualcuno bisogna "credere almeno un po' alla sua innocenza". Su questo spunto, sottolineato a pennarello indelebile da una sceneggiatura molto lontana dal concetto di show, don't tell, Le Fil voleva forse imbastire una riflessione sulla nostra credulità di spettatori, sulla moralità dello sguardo che accetta di mettersi tra parentesi per ragioni fondamentalmente superficiali.

Non è l'idea più originale del mondo, ma il cinema non è mai fatto solo di idee bensì della loro esecuzione. Ed è qui che il film delude. La stragrande maggioranza di Le Fil è semplicemente un giallo processuale non particolarmente raffinato o intrigante, dove si cerca di scoprire chi ha fatto cosa e perchè con un passo e un brio registico che non si distaccano dal procedural televisivo medio. A tenere avvinti alla possibilità che da dentro le maglie del genere Auteuil stia cercando di elaborare un discorso ci sono praticamente solo la caratterizzazione del protagonista (inquieto ma non si sa bene per cosa, e non è detto che alla fine si capisca) e continui e fastidiosissimi inserti onirici sul tema della corrida, che nel finale sveleranno immancabilmente il loro didascalico valore metaforico. Non esattamente Anatomia di una caduta.

Continua a leggere su BadTaste