Le fate ignoranti: la recensione

La serie Le fate ignoranti è discontinua rispetto al film e non riesce a eguagliarne la forza pur divertendo in qualche passaggio

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A poca distanza da A casa tutti bene di Gabriele Muccino, Ferzan Özpetek ripropone sotto forma di serie Le fate ignoranti. Un’operazione concettualmente simile, che prende il film come struttura consolidata su cui ispirare la serie (un po’ come spesso lo sono i libri per i lungometraggi). In realtà tra i due c’è una differenza abissale in termini di progetto, di ambizioni e di riuscita.

A casa tutti bene prendeva dall’omonimo film solo il concetto poetico: una famiglia che si ritrova in un’occasione di festa, lì esplodono problemi sopiti e drammi che si intrecciano che da singoli dilemmi personali iniziano a riguardare un po’ tutti. C’è un’eredità pesante da portare sulle molte spalle di figli che non vanno d’accordo. Sono costretti a lavorare insieme e a condividere spazi e denaro. La serie è una variazione sul tema del lungometraggio, che mantiene solo qualche accenno rispetto alla sua fonte di ispirazione ma che, per la maggior parte, si distanzia. Ancora più che un reboot è proprio un’altra storia.

Le fate ignoranti è invece totalmente un remake che procede seguendo i passi del film e lo supera di poco sul finale. Si prende più tempo per ampliare il carosello di personaggi che circondano la vicenda principale. Crea sottotrame e nuovi intrecci, sempre in posizione arretrata rispetto alla trama portante: quella originata dall’amore di Massimo e Michele. Due amanti che si sono conosciuti grazie ai giochi del destino: cercavano entrambi uno stesso libro nella stessa libreria che ne possedeva una copia sola. 

Massimo è sposato con Antonia, che non sa nulla della sua relazione. La donna inizia a sospettare dopo la morte del marito a causa di un incidente. Si presentano al funerale delle persone che lei non conosce, e trova una lettera di una persona misteriosa. La sua ricerca la porta a scoprire il condominio frequentato dal marito, quello dove vive Michele, e tutti i suoi amici stretti in una famiglia composta non da legami di sangue, ma di affetti. 

Una nuova prospettiva per Le fate ignoranti

La serie TV cambia la prospettiva: se il film era esplorato attraverso gli occhi di Antonia, questa nuova versione di Le fate ignoranti parte da quelli di Michele. In una sorta di contro campo riesce a raccontare la stessa storia, ma dalla prospettiva opposta ampliandone così la portata. Antonia seguiva le misteriose chiavi possedute dal marito, apriva la porta e trovava una nuova versione della realtà che lei si è sempre raccontata. Ora il punto di partenza è posto proprio dietro questa porta. È infatti la donna ad entrare e turbare l’ordine delle cose. Mentre nel film Michele prendeva gradualmente il posto di protagonista, qui lo stesso succede per Antonia.

Le fate ignoranti - la serie

Le fate ignoranti non riesce però a trovare la forza che poteva avere nel 2001, quando un film così attento alla comunità LGBTQA+ era un qualcosa che faceva notizia. Uno dei pochi con la capacità di cantare le vite di chi in Italia era messo ai margini dei riflettori e quando era rappresentato lo era come una macchietta. Özpetek, che è bravissimo a creare comprimari, mentre è molto più debole nei protagonisti, personaggi tragici classici, amava più quel condominio che le strade in cui era posto. Così anche nella serie che manifesta però gravi carenze sulla messa in scena e sui dialoghi che, quando va bene sono ingenui, quando va male sconfinano nel predicatorio.

La nostra non sarà una famiglia biologica, ma almeno è una famiglia logica perché ce la siamo scelti!”. Oppure “Di cosa si occupa?” “Di import export!” “Di cosa, diamanti? Di-amanti?” Sono alcuni esempi di frasi così scritte e artificiali che affossano anche le migliori intenzioni. È difficile empatizzare con queste vite così incasinate. Lo è anche leggere i temi socio politici che vuole affrontare delegando solo ai dialoghi. Gli amici si raccontano la vita gli uni con gli altri, si dicono come devono essere e cosa pensare. Raramente però la loro filosofia di vita aperta all’amore e alla diversità deve fare i conti con il mondo vero.

La serie ha un’attenzione alla rappresentazione molto scolastica, che non impedisce ad esempio di proporre Nora la colf filippina, spalla comica a dir poco stereotipata e priva di spessore. Ogni puntata ha poi dei momenti di sospensione, delle parentesi musicali riflessive dove si balla, ci si sorride, si dorme a letto in attesa di un nuovo giorno senza che questo porti mai avanti la storia. Parentesi quasi da video musicale che dilatano un ritmo già di per sé non eccessivamente sostenuto. 

Un divertimento tirato per le lunghe

Ci sono alcuni passaggi divertenti, e generalmente li si riconosce perché vedono in scena Serra Yılmaz, attrice feticcio del regista e vera star della serie. Lei, con la sua parlata incerta e la presenza scenica coloratissima, è meno precisa rispetto ad altri, ma funziona di più. Offre infatti quel distacco critico, come un commento alla moviola dei tradimenti, fondamentale per non prendersi troppo sul serio. Bene Luca Argentero e Cristiana Capotondi, mentre Eduardo Scarpetta fa quello che può, pur avendo un personaggio che va in calando. Presi da soli persino i comprimari sono interessanti. Manca però un po' di compattezza alle loro scene. Non è un caso che i momenti migliori siano quelli collettivi, riuniti attorno a un tavolo a mangiare e discutere.

Le fate ignoranti non riesce così a raggiungere il film da cui è tratto perché le aggiunte non sono mai forti come la trama portante. Le vicende dei comprimari sono scollegate dal resto, hanno in comune solo il tema dell’amore tormentato, ma non si incastrano mai come pezzo inamovibile. Possono essere tagliate tranquillamente e tutto reggerebbe. L’unica linea da cui non si può prescindere è proprio quella che è andata a formare il film originale. Avrebbe giovato di più una struttura ad episodi antologici. Vite incrociate sullo stesso terrazzo, drammi che durano una puntata e vanno a costituire quel grande affresco umano così caro a Özpetek che qui invece si raggiunge solo con fatica e discontinuità. 

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