Le Deuxieme Acte, la recensione | Cannes 77

Un film dentro un film dentro un film, fino a perdersi. Le Deuxieme Acte ha le idee migliori ma non sempre sa come chiuderle

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Le Deuxieme Acte di Quentin Dupieux, film di apertura di Cannes

Quando Dupieux ha iniziato a fare film aveva la forza della sua originalità e di un atteggiamento sfrontato contagioso. Meno quella dell’umorismo (che era più infantile che affilato) e meno quella della narrazione attraverso la regia. Ora, più di quindici anni dopo, invece padroneggia una tecnica sopraffina. I suoi film non sono sempre convincenti e, ancora peggio, anche quando lo sono molto raramente lo sono fino alla fine; vivono di spunti e inizi folgoranti ma fanno una fatica impossibile da arrivare alla fine, come se il suo autore se ne disamorasse con il passare dei minuti e stesse già pensando ad altro. Tuttavia i due pianisequenza che aprono Le Deuxième Acte sono dei momenti di cinema da vero maestro, dialoghi tra personaggi in cui ogni scelta (la regia è questo: scelte) è eccezionale. Camminano nella campagna, in una giornata un po’ piovosa, sono inquadrati di tre quarti con un carrello che indietreggia mentre loro camminano verso l’obiettivo, e la discussione è piena di accelerazioni e rallentamenti, così accattivante che ci vuole un po’ per rendersi conto di che eccezionale sequenza sia.

Lo sa anche Dupieux che alla fine di questo film iniziato con i due sopracitati pianisequenza, rifà quel percorso ma inquadrando i binari del carrello. Come a celebrarlo. Cinema che parla di cinema, che mostra i dispositivi di messa in scena, sublima le paure dell’industria e prende in giro gli attori, materia perfetta per l’apertura di Cannes anche se poi, dopo aver iniziato a raccontare di questi quattro attori (che diventano cinque) si perde. È un cunicolo di film dentro il film, da subito gli attori sanno di essere tali e un incidente con il dialogo in cui uno dei due svela la sua omofobia introduce il fatto che siano terrorizzati dalla cancel culture. Sanno cosa va detto ma non tutti lo pensano davvero. Quando crediamo di aver capito a che livello siamo (cioè il film che vediamo è finto e gli attori sono persone diverse), scopriamo che anche quello è un altro film e gli attori hanno caratteri ancora diversi. Nel pieno stile di Dupieux l’obiettivo non è la logica ma sorprendere e confondere, giocando con regole che ha appena creato invece di sfruttare quelle di altri film.

E benché dopo la metà l’espediente perderà mordente ed emergerà la fatica a dire qualcosa tipica di Dupieux (un’idea sola è forte ma è come un’isoletta in un mare: l’attore quando esce dal ruolo si trucca allo specchio, come se quella lì, la vita vera, fosse la messa in scena), lo stesso è impossibile non vedere che felicità di racconto abbia questo regista. Anche in virtù dei suoi ritmi veloci, bassi budget e soluzioni rapide, che lo rendono uno dei pochi cineasti in attività da due film l’anno, riesce a raccontare con un’asciuttezza invidiabile. Non c’è mai un secondo di più, i suoi racconti (lineari o meno) vanno avanti con una rapidità da Takashi Miike, senza sacrificare battute, variazioni, riferimenti e ammiccamenti.

Nelle parti migliori di Le Deuxieme Acte ci sono moltissime suggestioni (perché questi attori di un film scritto e diretto da un’intelligenza artificiale quando sbagliano vanno avanti come non potessero rifare le scene, come fossero su un palco teatrale?), nelle peggiori insegue farfalle, cerca di arrivare a un punto non giungendoci mai e girando intorno ad alcune idee, come per l’appunto l’intelligenza artificiale, la comparsa incapace e via dicendo. Non che si voglia cercare davvero un senso nei film di Dupieux (sarebbe troppo anche per un critico!) ma è chiaro che nei suoi film e specialmente in questo che con Yannick compone un dittico, ci sono stimoli e invenzioni sul rapporto tra spettatori, attori e creatori, che sono tutt’altro che scemi (nonostante la forma voglia essere scema). Eppure alla fine ci si ritrova con quella che è più una forma di buon e rispettabile escapismo che il divertimento intellettuale che pensa di essere.

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