Le Confessioni, la recensione

Riempito di ambizioni elevate ma poi tremendamente in difficoltà al momento di concretizzarle, Le Confessioni riesce solo a risultare pomposo

Critico e giornalista cinematografico


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Un film come Le Confessioni è, in una parola, irricevibile.

Quello di Roberto Andò non è un film semplice, né uno che nasconde le proprie ambizioni. È un film che pretende tantissimo da se stesso, già solo nel mettere un monaco certosino nella stanza dei bottoni, il posto cioè in cui ci sono i potenti della Terra si riuniscono, solo per scoprire che non sono poi così potenti ma ostaggio anch’essi di un potere fumoso come quello della finanza. Ambizioso quindi ma anche fumoso, come il potere che descrive, ancorato a grandi temi e ideali alti ma poi incapace né di renderli con impressionante vicinanza allo spettatore (sarebbe la richiesta minima di fronte a tanta ambizione), né di manipolarli per arrivare a qualcos’altro.

Ancora più audace poi è l’idea che a legare tutti i personaggi e tenere in piedi l’intreccio sia un segreto, ciò che forse è stato confessato al monaco ma che nessuno dovrebbe sapere, un segreto che magari nemmeno esiste ma lo stesso agita tutti. Il pretesto fatto esplicito espediente di sceneggiatura.

Mai lungo tutto il film si avverte l’impressione che di tutte queste ambizioni smisurate qualcosa riesca a passare. È evidente infatti che Le Confessioni non desidera fornire risposte ma suggestionare, arrivare là dove un ragionamento logico non può giungere con la forza di atmosfere e allusioni, eppure l’impressione è che Roberto Andò si fidi eccessivamente della sua capacità di creare senso senza un vero e proprio intreccio. A mano a mano che il film avanza il suo mondo lentamente crolla, l’interesse scatenato inizialmente da una morte improvvisa e per l’appunto dall’esistenza di un segreto, lascia infatti il posto ad un atteggiamento pontificatorio, ad una rarefazione quasi mistica che tuttavia gira a vuoto. La certezza di essere dalla parte dei migliori, di essere parte dei più avveduti prende il sopravvento.

Le Confessioni per giunta non ha paura di guardare il mondo dall’alto verso il basso, là dove l’alto è la cima della cultura contrapposta alla politica mostrata nelle sue bassezze, l’alto di un monaco abituato al silenzio che registra il canto degli uccellini e ammansisce un cane imbufalito non è ben chiaro da cosa (sono solo alcune delle molte trovate che significative lo sono unicamente a parole, ma in realtà appaiono incapaci di parlare realmente allo spettatore). Detto in parole più povere più avanza più Le Confessioni sembra pretendere che lo spettatore aderisca alla sua visione di mondo senza spiegarla mai realmente, senza renderla nemmeno complessa a sufficienza; più ci si addentra nel film più questo esige che lo spettatore entri nella sua storia o nel suo ragionamento senza mai tirarcelo davvero dentro. Per questo è irricevibile, perché pretende moltissimo senza dare niente, si ammanta da sè di un’aria autoriale ed elevata, pretendendo che questo basti, che i topoi dell'intellettualismo più semplice facciano da garanti.

E ovviamente in tutto questo non aiuta per niente la presenza di Toni Servillo, cavallo di razza complesso da gestire. La sua entrata in scena è fantastica, un colpo di quelli che questo attore fenomenale ha nel proprio repertorio: lo vediamo aggirarsi spaesato con un’espressione smarrita dentro la quale si sente l’eco di anni di ritiro e immediatamente, anche solo visivamente, percepiamo una distanza dal resto del mondo come non siamo abituati a vedere. Fantastico! Tutto il resto del film non sarà però all’altezza di questo incipit, ma anzi sarà vessato dalla prosopopea di cui Servillo è spesso portatore, almeno quando non c’è un regista in grado di tenerne a bada la vanità.

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