Le bal des folles, la recensione

Le bal des folles nonostante le sue nobili ambizioni è un film che ha paura di osare. E, a causa del suo timore, non riesce ad esprimere le sue idee.

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Le bal des folles, la recensione

Adattamento del libro omonimo di Victoria Mas, Le bal des folles non è tanto un affresco di un epoca - la fine dell’Ottocento a Parigi - né un convinto j’accuse contro l’evidente follia perpetuata dalla scienza medica istituzionale verso donne “scomode” considerate pazze (e quindi internate in manicomi). Il nuovo film scritto e diretto da Mélanie Laurent, disinteressandosi alle dinamiche specifiche che hanno rinchiuso le donne dell’epoca nella gabbia della discriminazione, ha infatti più i connotati del manifesto, di una presa di posizione astorica.

A prescindere dal tempo, dalle circostanze. Quest’operazione riesce però in modo abbastanza difficoltoso e contorto a Le bal des folles. Il film infatti rinunciando ad addentrarsi realmente nella sua epoca, e parimenti evitando di approfondire i dilemmi e le spinte antitetiche dei suoi protagonisti, risulta piuttosto engimatico e anonimo. In sintesi, gli è praticamente impossibile riuscire ad illuminare di riflesso il suo lato politico e mlitante, visto che a sorreggerlo non vi è una storia che sia di per sé pronta a prendere decise posizoni narrative.

Per prima cosa, infatti, il film è piuttosto indeciso su chi sia la sua protagonista. All’inizio si dedica a raccontare Eugénie (Lou de Laâge), giovane esponente della borghesia parigina. Eugénie è appassionata di poesia, vorrebbe partecipare ai dibattiti, mostra un’umorismo pungente contro tutto ciò che le sue controparti maschili (il padre in primis) avrebbero deciso per lei. Il suo anitconformismo di piccoli gesti, ma mai reclamato a gran voce, è però insostenibile secondo la sua famiglia quando si afferma come spaventoso e irrazionale: Eugénie, a discapito di ogni credibilità, può parlare con gli spirti. Internata al manicomio di Salpêtrière Eugénie si scontra con la responsabile Geneviève (Mélanie Laurent), la cui impassibilità verrà scalfita giorno dopo giorno man mano che le due si renderanno conto di essere necessarie l’una all’altra.

Da questo punto Eugénie viene messa da parte dal film a favore di Geneviève. Tuttavia, oltre a mostrarci i trattamenti e le umiliazioni a cui le donne vengono sottoposte dentro il manicomio, oltre a soffermarsi su altri micro-ritratti delle altre pazienti e a mostrare come l’unica animalità sia quella degli uomini che usano le donne come cavie da laboratorio o pupazzi con cui giocare (tutti gli uomini del film ne escono in modo impietoso, a parte il fratello di Eugénie, che è comunque un miserabile), Le bal des folles si limita ad esplorare la mera superficie del mondo complesso che ha di fronte.

Geneviève stessa, nonostante la sua posizione di potere, viene sottilmente messa a tacere quando parla o agisce in modo apparentemente “irrazionale”. Oltre a questo però non riusciamo a cogliere altro della sua persona: il parallelismo tra le due donne rimane una giustapposizione di cui è difficile intrecciare i fili tematici, umani. Il gesto simbolico del sacrificio è qui una semplice affermazione di cui non è dato capire la vera portata extra-filmica. Il problema, in sintesi, è che è piuttosto difficile capire cosa voglia dire Le bal des folles al suo spettatore.

L’autriceMélanie Laurent imbocca la strada del realismo, della distanza empatica dai suoi personaggi, relegando a chi guarda la responsabilità di leggere tra le righe. Il testo, data la sua freddezza, respinge tuttavia ogni sforzo interpretativo. La macchina da presa infatti rimane spesso distante; il respiro delle scene è sempre frettoloso, e Mélanie Laurent non si dà mai più di un paio di minuti per rimanere su un’idea, una suggestione, un dialogo.

Le bal des folles nonostante le sue nobili ambizioni è un film che ha paura di osare. E, a causa del suo timore, non riesce ad esprimere le sue idee.

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