Le 7 vite di Léa: la recensione

Le 7 vite di Léa ci mette un po' a ingranare ma, quando lo fa, diventa un appassionante mistery giovanile sul corpo e sulla nostalgia

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La recensione della serie Le 7 vite di Léa, prodotta per Netflix dal 28 aprile

Le serie e i film teen parlano sempre dei corpi. Non accettati, esibiti, sfruttati al massimo o nascosti con timidezza. Sono involucri il cui interno ribolle di ormoni e desideri spesso frustrati da qualche impedimento. Che sia una malattia, una distanza o un pericolo, il problema da risolvere è quasi sempre un fatto di carne. Lo era in Tredici dove l’assenza si manifestava attraverso audiocassette, lo è in Baby dove invece la fisicità è ben presente come mezzo per l’ascesa sociale. Gli esempi possono variare, dalla più dura Euphoria alla leggera Non ho mai. Le 7 vite di Léa, nuova serie francese disponibile su Netflix, tratta dal romanzo di Nataël Trapp, di corpi ne ha in abbondanza.

Con furbizia l'adattamento inverte il sesso dei protagonisti e dei comprimari, mettendoci nei panni della giovane Léa (nel libro si chiama Léo). Identità sessuale che si somma in una struttura mistery articolata su più piani temporali, ma soprattutto attinge a piene mani dalla nostalgia.

È la natura paradossale di questi prodotti: che parlano a un pubblico giovane cercando di fargli vivere l’atmosfera di un tempo che non hanno mai vissuto. Per un periodo sono stati gli ’80, adesso siamo arrivati ai ’90. Piace quel mondo lì, senza cellulari, in cui si suonava e ci si sballava lontano dai genitori e in cui il futuro era meno legato agli studi. Non ci sono secchioni ne Le 7 vite di Léa; solo giovani che devono decidere se continuare il proprio percorso di formazione o trovare un lavoro. Per seguire i propri sogni la seconda scelta è quella più frequente. 

Léa si dovrà confrontare con questa distanza e fare i conti con il suo futuro

Léa è una giovane studente dai voti mediocri, indecisa su cosa fare nella vita. Trova per caso il corpo di Ismael, un giovane morto trent’anni prima. Sconvolta, si sente direttamente coinvolta nel caso. Non sa che presto lo sarà ancora di più. Per magia si sveglia infatti in un corpo non suo, nel 1991, esattamente sette giorni prima della scomparsa del ragazzo. Il sonno e la veglia sanciscono lo scambiarsi dei corpi, spesso diversi di volta in volta. Léa affronta così un’indagine attraverso il tempo per scoprire l’assassino e salvare la vita alla vittima. Che cosa hanno in comune le persone in cui si ritrova? E perché è stata scelta proprio lei per questo compito? Scoprirlo porterà alla luce oscuri segreti di famiglia.

Le 7 vite di Léa ci mette un po’ a ingranare. Ha l’ingombrante struttura a salti nel tempo concentrici già vista mille volte. Eppure una volta che assolve a tutti i suoi compiti istituzionali (spiegare le regole e gli effetti dei passaggi di corpo, l’impatto che hanno sul presente), si tramuta in un divertente gioco in cui collegare le linee parallele.

Alle 7 vite di Léa non importa fare tutto perfetto, ma arrivare alle scene chiave

Come il genere richiede la trama viene compressa e forzata all’inverosimile per arrivare ad alcuni momenti chiave. Le situazioni che si vengono a creare sono infatti ben più importanti della plausibilità. Accettato questo si può perdonare anche un finale eccessivamente caricato di enfasi. Senza svelare nulla, man mano che si procede nell’indagine tutti sembrano voler attentare alla vita di Ismael, chi inconsapevolmente e per sbaglio, chi facendo minacce totalmente a caso, ritirate pochi secondi dopo con dichiarazioni d’amore annesse (ti uccido… perché ti amo!).

Eppure Le 7 vite di Léa si fa perdonare tutto questo perché è girata con un’energia fresca, come lo sono i volti poco noti scelti dalla showrunner Charlotte Sanson. Raïka Hazanavicius, che interpreta la protagonista, ha la faccia dall’età indefinita e uno sguardo imbronciato anche quando è neutro. Khalil Ben Gharbia (Ismael) che viene dalla versione francese di Skam, comunica libertà con la sua presenza in scena. Spesso svestito, giocherellone, prende possesso dello spazio come se in quei luoghi avesse vissuto veramente. Infine Marguerite Thiam, che interpreta la madre della protagonista da giovane, nell’episodio a lei dedicato cattura tutta l’ambiguità di chi ha un’anima diversa dal corpo in cui abita. Una scoperta!

Musiche, colori e dialoghi che sanno essere sia retorici che franchi (si passa dalla melassa eccessiva dei pensieri, alla plausibilità degli scambi più duri e sintetici tra coetanei) aiutano a non stancarsi di un ingranaggio che non mostra mai segni di stanchezza. Incredibile, visto che la serie si premura anche di ribadire gli snodi principali più volte, così da non perdere nemmeno il pubblico distratto. Persino quando riesce a mostrare un colpo di scena in maniera minimale: attraverso un oggetto o una decisione chiave presa nel passato, la voce fuori campo dei pensieri di Léa spiega parola per parola quello che dovremmo dedurre.

Gli anni '90 come un'epoca imperfetta

Le 7 vite di Léa funziona molto di più nel passato che nel presente, pur con il vulnus di essere realizzato da gente che ha l’età dei genitori della protagonista. Lei che va nel passato, nelle loro esistenze, per conoscerli meglio. Ma è un’analisi introspettiva fatta dagli autori verso se stessi, non dall’esterno. Perciò non sempre riesce l’effetto di pesce fuor d’acqua, ma alcune finezze di scrittura dimostrano un profondo rispetto per le culture giovanili di ogni epoca. Come ad esempio il fatto che gli adolescenti del 2021 si scambino i contatti di Instagram, ma vadano a cercare i loro genitori solo su Facebook. 

I supporti vecchi, come i telefoni fissi, le VHS, le cineprese ingombranti, non sono mai guardati con stupore. Perché non si presuppone che i teenager siano totalmente all’oscuro del passato. Anzi, provano un fascino vintage per un’esperienza di mondo più grezza e, per certi versi difficile. L’assenza del digitale, di internet, è quindi solo un ostacolo, mai una scusa per elogiare i bei tempi andati.

Quello che cambia non è tanto il contesto esterno, le masse si comportano più o meno allo stesso modo da sempre. Il problema è invece portare in giro il corpo coerentemente con l’anno in cui si è. Come vestirsi quindi per uscire? Ma soprattutto: come essere maschi, come essere femmine e come vivere la propria omosessualità in un’epoca meno tollerante e più stereotipata? Léa si sforza quindi di allargare le gambe quando si siede nei panni di un maschio. Nota le ragazze ai margini delle piste da skate. Fatica a capire i sentimenti nascosti e l’amore di un uomo verso un altro uomo vissuto nell’ombra e con dolore verso di sé, per incapacità di accettarsi.

Sono piccoli dettagli che elevano la serie da un semplice divertimento scanzonato a un riuscito gioco sui segni del tempo. Finalmente si ha il coraggio di fare un’operazione nostalgia. Un elogio al periodo magico della crescita che non lo idealizza, ma dice che oggi, al netto di tutto, si può anche vivere meglio.

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