[Cannes] Lawless, la recensione
Proibizionismo, sangue e famiglia. John Hillcoat per il concorso di Cannes punta su una revisione gore del gangster movie americano del primo novecento ma convince solo in parte...
Caos, mancanza di direzioni, inefficienza o inesistenza dell'ordine costituito e legge della strada, cioè anarchia.
In questo scenario si muovono tre fratelli fuorilegge dell'alcol. Il capo riflessivo (Tom Hardy, che vince sempre lui), l'animale (Jason Clarke) e il debole (Shia LaBeouf), succube sia della violenza che del successo.
Se però le premesse spingono bene sul pedale dell'inconsueto, con una presentazione dei personaggi, dello scenario e dell'azione che fa sperare per il meglio, a mano a mano che procede il film diventa sempre più ordinario fino allo scontato showdown finale (scontato in sè e per come si svolge). Come se Hillcoat non riuscisse a mettere a frutto quei paesaggi che pure sa incastrare nei frame e quelle figure che pure sa incastrare tra alberi e foglie.
Forse allora è proprio nell'estrema esibizione di violenza e nella resa nuda e cruda di un tempo e una condizione (gli anni '20 e il proibizionismo) in un paese violento di suo come gli Stati Uniti, che Lawless può trovare la sua parte più interessante, probabilmente l'unica.
Non è solo una questione di sangue a fiotti e di organi espiantati con coltellacci, ma di tratteggiare uno scenario in cui può seriamente accadere quanto di peggio e in cui i miti, pur essendo irreali e fasulli come sempre (fa testo quello imbastito dal protagonista), hanno salde radici in eventi reali e spaventosi, mattanze al limite dell'umano. Il mitologico e il reale che si sovrappongono in uno scenario in cui l'ordine costituito non esiste.