Ultima notte a Soho, la recensione | Venezia 78

Last Night in Soho è la prova magnifica di un Edgar Wright che si approccia con maturità e gusto a nuove atmosfere, nuove idee e nuovi tipi di personaggi

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Last Night in Soho, la recensione | Venezia 78

Ci sono voluti venticinque anni passati a Soho tra pub, vecchi palazzi e vetrine patinate per far decidere ad Edgar Wright di realizzare la sua fantastica e orrorifica lettera d’amore a Londra. Last Night in Soho nonè però soltanto tutto ciò che Wright ha costruito nel tempo film dopo film, cristallizandosi nell’immaginario collettivo come l’autore a cui piace giocare con generi, cultura popolare e comicità. Last Night in Soho è infatti, per la prima volta, anche un Edgar Wright che si approccia con maturità e gusto a nuove atmosfere, nuove idee e nuovi tipi di personaggi, che mette da parte il comico (ma non l’ironia) per dedicarsi magnificamente al thriller psicologico, all’horror, al noir.

Tra vecchi vinili beat e con l’idea precisa di rievocare la Swinging London con uno sguardo al contempo affascinato e turbato, Last Night in Soho vuole raccontare la pericolosità dell’idealizzare, del rievocare qualcosa che è irrimediabilmente passato e che non potrà mai tornare uguale a sé stesso. Questo vale per la storia della cultura inglese ma anche, calandoci nella trama, per la protagonista Eloise (Thomasin McKenzie). Ellie infatti ha un passato doloroso segnato dal trauma della morte della madre e, come aveva anche questa, ha il desiderio bruciante di diventare una stilista. Da quando si trasferisce a Soho per frequentare una scuola di moda comincia a sognare Sandy (Anya Taylor-Joy), una sensuale e affascinante ragazza degli anni Sessanta, sicura di sé come Ellie non sembra riesca ad essere. Il sogno però diventa pian piano un ossessione, poi un incubo, finché non porterà Ellie a non distinguere più cosa è reale da cosa è immaginario.

Lo sapevamo che Edgar Wright è un cinefilo incallito ma in Last Night in Soho i riferimenti assumono un tono serio e si fanno molto più sottili. Da una parte con un intreccio mistery a scatole cinesi che fa l’occhiolino alle trame hitchcockiane (co-scritto con la sceneggiatrice Krysty Wilson-Cairns), dall’altra con un’intenzione visiva sgargiante, di luci multicolor e prospettive speculari e surreali che sono una eco lontana dell’horror anni Sessanta/Settanta (Bava, Argento, ma anche Polanski). E proprio gli specchi e tutte le superfici riflettenti sono qui essenziali, sono le porte che collegano i due mondi dove si annidano mostri e fantasmi, la chiave per aprirsi al perturbante.

Se Anya Taylor-Joy è sublime e magnetica, Thomasin McKenzie è un perfetto turbinio di espressioni che variano dalla dolcezza alla disperazione. Ad Edgar Wright non serve però strafare con i toni recitativi e stilistici né calcare sul pedale dell’horror per riuscire a mantenere l’attenzione. In realtà non gli interessa nemmeno spaventare (no, il film non fa paura). Quello che invece Wright vuole costruire e raccontare con Last Night in Soho è un mondo visivo autosufficiente che funzioni come metafora di quei luoghi “inesistenti” che sono la memoria e il passato. Dentro questo grande calderone ci vanno a loro volta altre cose ma soprattutto una condanna alla violenza (verso chiunque e in qualunque modo) molto più raffinata di quanto sembri inizialmente.

Last Night in Soho è un film un bellissimo perché riesce a raccontare in modo diretto, visivo e attraverso una prospettiva di genere come le immagini (nella vita, ma soprattutto nel cinema) siano allo stesso tempo sinonimo di verità e di immaginazione. Wright sa cosa deve fare e si prende tutto il tempo che gli serve per suggerire e per ingannare, sapendo perfettamente quando e come è necessario fornire allo spettatore i vari indizi senza far crollare l’intera impalcatura.

Forse è appena iniziata una nuova fase del cinema di Edgar Wright. E noi non vediamo l’ora di vedere come si trasformerà di qui in avanti.

Cosa ne dite della nostra recensione di Last Night in Soho? Scrivetelo nei commenti!

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