Last Film Show, la recensione
Last Film Show di Pan Nalin è una dichiarazione d'amore, originale per la sua cinefilia, al cinema come materia e dispositivo
La recensione di Last Film Show, al cinema dal 23 agosto
In questi anni molti autori hanno sentito la necessità di raccontare in un film la storia della loro e vita e quindi del loro personale cinema (Spielberg, Branagh, Sorrentino, Iñárritu…) ma Last Film Show, pur non essendo pienamente appagante per compiutezza o originalità, si distingue per una caratteristica unica, il suo essere un atto più preciso e specifico di cinefilia: una dichiarazione d’amore alla materia del cinema in pellicola, cui Samay tende con la voracia di chi vuole toccare con mano ciò che lo affascina (che si mette addosso, stagliuzza, ruba e regala) e all’arte del proiettare, che infatti Samay persegue lungo tutto il film come se quella fosse la sua vocazione, e non quella di fare il regista (cosa che infatti non viene mai detta).
A livello di trama, Last Film Show segue la semplice idea di raccontare come una fascinazione diventa una vocazione, facendo sì che un bambino compia un percorso di crescita. Il primo incontro di Samay con il cinema è un film indiano religioso, il padre è contro il cinema ma porta tutta la famiglia in virtù del tema del film. Pan Nalin percorre quindi da lì in poi, parallelamente alla storia di Samay e al suo apprendistato con un proiezionista locale (in cambio del goloso cibo della madre) anche una storia del consumo di cinema in India nei primi Duemila, facendoci vedere tramite gli occhi di Samay come i generi, i pubblici e il mercato del cinema cambiano nel tempo, arrivando al tragico epilogo dell’avvento del digitale. Questo aspetto, forse più della cinefilia sopracitata, è il più interessante di Last Film Show: Pan Nalin tuttavia lo analizza solo saltuariamente, senza mai andarci a fondo, concentrandosi invece di più su dinamiche familiari ben meno stimolanti e più volutamente mélo.
Nonostante il suo incedere a volte claudicante e dispersivo, Last Film Show è un film veramente focalizzato sull’affascinante aspetto del cinema come materia. Questa idea Pan Nalin la percorre fino alle sue estreme conseguenze, ovvero la distruzione dell’analogico, con una sequenza sorprendente per la sua crudezza emotiva e le implicazioni di consumo che comporta, riuscendo a far coincidere con l’immagine di braccialetti di plastica (ma non diremo altro) l’esito tragico e la presenza immortale dei film della sua vita e del cinema in generale.
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