Lasciarsi un giorno a Roma, la recensione

Una coppia è in crisi ma stavolta ci viene raccontato per simulacri. Idea ottima solo sviluppata male

Critico e giornalista cinematografico


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Lasciarsi un giorno a Roma, la recensione

C’è qualcosa che non manca mai nei film scritti e diretti da Edoardo Leo, ed è uno spunto accattivante (il suo primo 18 anni dopo era un confronto tra fratelli diversi mentre trasportano le ceneri del padre per spargerle; il suo più riuscito, Che vuoi che sia, è su una coppia che annuncia online per scherzo un possibile video porno e i soldi che gli vengono versati cominciano a fargli pensare che abbia un senso), stavolta l’idea è quella di fare in modo che una coppia possa confrontarsi e parlare di tutto ciò che solitamente scatena rabbia, urla e parole forti, senza che questo avvenga grazie ad un espediente.
È una maniera più avvincente della media per parlare di come finisce un rapporto e di quello che lo fa finire: usare dei simulacri invece delle persone vere, ma l’espediente non sembra essere sfruttato al meglio.

Non è solo il protagonista ad essere un simulacro (lei pensa di avere un rapporto via messaggio con il tenutario di una rubrica di problemi di cuore e invece parla con lui), anche il suo migliore amico (Stefano Fresi) che gli parla dei problemi di coppia con sua moglie (Claudia Gerini) è un simulacro, perché ha con lui le stesse discussioni che avrebbe con la sua ragazza, è una maniera di rimettere in discussione quei problemi. Tuttavia questa seconda trama, quella dei problemi dell’amico con la moglie sindaco di Roma, non solo sembra venire proprio da un altro film, avere altri ritmi, altri perché e un altro senso (molto più ordinario e banale), ma rafforza stranamente l’idea che il fatto che le donne di queste due coppie siano delle grandi lavoratrici acuisce i problemi. Senza contare che mentre la trama principale è chiusa decentemente (più o meno), questa si chiude riproponendo uno dei peggiori cliché del cinema: il confronto tra coppie che avviene non si sa perché in pubblico, il momento in cui davanti a tutti qualcuno comincia a parlare di cose private con un altro, sentimenti sparati davanti a platee grandissime come se fosse l’unica cosa da fare.

Su tutto però Lasciarsi a Roma è un film che parla di emozioni senza riuscire a metterle in scena. Ci viene ripetuto più volte il peso dell'amore della coppia, ma sempre a parole, un film di sentimenti raccontati. I protagonisti lottano per non perdere l’amore che li lega ma noi non lo vediamo mai, dobbiamo fidarci del fatto che esiste. Dovremmo fare il tifo per quell’amore ma ad un certo punto ci sembra quasi giusto che si lascino perché non vediamo ragioni perché stiano insieme o perché si siano messi insieme in prima istanza. E questo diventa un po’ un’agonia nel finale, tirato eccessivamente per le lunghe, pieno di avanti e indietro e incapace di mantenere vivo l’interesse del pubblico.
L’unico anfratto in cui ci si può rifugiare lo spettatore per trovare qualcosa di interessante è la maniera in cui sotto sotto questo sia anche un film sul tempo che passa e il fatto che non si è più quelli di una volta.

Tutto ciò che invece dovrebbe aiutare noi e il film scarseggia come ad esempio la presenza di Roma, cruciale già nel titolo ma affermata solo attraverso monumenti iconici e droni, il massimo della distanza e il minimo dell’intimità. Se il punto era usare Roma come di solito il cinema usa New York o Londra o Parigi, non un fondale ma un personaggio, è mancato perché manca il livello strada, i dettagli, le particolarità della città dal punto di vista di chi la vive e non dei turisti. Il barcone sul Tevere da cui lavora il protagonista è l’unico esempio in questa direzione, lo spirito di Roma non sta certo nel Colosseo ma semmai nei vicoli e nelle particolarità di certi interni.

Così alla fine non rimane che urlare i sentimenti, urlarli con rabbia per dimostrare allo spettatore che sono forti.

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