L'arte di vincere, la recensione

Un film sul baseball senza il baseball, scritto da appassionati di baseball che è anche più godibile se non si sa niente di baseball, nemmeno le regole.

Critico e giornalista cinematografico


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L'arte di vincere è un film scritto da due mostri (uno normale e uno sacro) e diretto da un onesto mestierante. Questo basta a far capire il tono generale della pellicola. Quello che non traspare però è quanto questo film lavori insistentemente sull'adattamento di una storia vera alle esigenze di un racconto (cioè far emergere diversi livelli di lettura, disegnare una parabola che abbia un senso, avere snodi drammatici e un inizio e una fine d'effetto).

La trama è quella classica di un uomo che la vita ha già sconfitto, il quale si gioca tutto per la sua seconda occasione. Solo che questa storia di sport non è di quelle in cui i limiti del corpo sono travalicati da un'indomabile volontà ben motivata, ma di quelle in cui il trionfo sportivo corrisponde a un trionfo personale e intellettuale. Billy Beane sta fuori dal campo ma la volontà con cui insegue la vittoria sono degne del miglior sforzo atletico.

E proprio sul tema della vittoria, della seconda occasione e di cosa significhi essere un perdente, che Sorkin e Zaillian impiegano i loro accenni migliori e le loro sfumature più sofisticate.L'arte di vincere è tutto giocato negli anfratti in cui la trama non raggiunge i personaggi, quando questi si prendono una pausa dal racconto degli eventi (la realtà) e macinano un po' nelle scene di transizione (molto probabilmente romanzate, più facilmente inventate di sana pianta).

Per questo dire cheL'arte di vincere sia un film sul baseball è più sbagliato che mai, anche a livello superficiale. Il baseball si vede molto poco e non c'è nessuna attenzione al gesto, al movimento e ai suoi rituali. Ogni qualvolta è inquadrato un momento puramente sportivo si ha la sensazione che il film non veda l'ora di sbrigare quest'incombenza per tornare a far dialogare il protagonista con la figlia. Cosa che accade due o tre volte in tutta la storia ma che ogni volta, senza ritegno, segna un punto. L'arte di vincere è un film sulla mentalità sportiva applicata ad altri ambiti, se proprio bisogna dare un'etichetta.

Ma se così fosse sarebbe solo un film un po' lento. In realtà la sensazione di liberatoria ariosità che si prova nel vedere affermata una verità da sempre negata dalla buona morale vigente, ovvero che l'uso di numeri, statistiche e "calcoli" non è in antitesi con l'uso dell'intuito e delle doti umane, è solo parte del più grande senso di liberazione che si prova in questa metodica e sentimentale distruzione del mito del vincente. Il baseball è l'essenza dell'America tradizionale e dei suoi valori, una delle sue più grandi metafore.
L'arte di vincere va a toccare senza fretta le corde più personalmente intellettuali di ognuno, sorprende e spiazza chi non conosce la storia del baseball (cioè tutti in questo paese) senza fare baccano. Per questo è già un instant classic.

Ribaltando il concetto di vittoria Sorkin e Zaillian regalano un personaggio straordinario e una morale (si si! Proprio "morale") tutta contenuta nelle parole di una canzone cantata da un personaggio (ovviamente la figlia, l'avevo detto che fa un uso senza ritegno di questa figura) in uno degli anti-climax finali più toccanti della carriera (non ricca in questo senso) di Brad Pitt. Che a questo film ci aveva creduto e sembra davvero cosciente a pieno del lavoro fatto in fase di scrittura.

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