L'arminuta, la recensione
Una storia perfetta per raccontare il proprio tempo, gli anni '60 italiani, diventa in L'arminuta qualcosa di più e forse anche qualcosa di meno
L’arminuta sarebbe “la ritornata”, in dialetto, ed è così che viene chiamata la bambina di tredici anni che un giorno, senza sapere perché, viene riportata alla sua vera famiglia. Non sapeva nemmeno di essere stata adottata da quelli che considerava i suoi genitori, una coppia borghese degli anni ‘60 italiani con la quale è cresciuta fino a quel momento, e adesso si ritrova, aliena e arminuta, in una famiglia campagnola, popolarissima, molto diversa. Non può decidere per sé e viene spostata di colpo da una vita agiata, piena di affetto e culturalmente stimolante, in una dura, dove tutti lavorano e nessuno è come lei. Lo spunto è affascinantissimo (viene dal romanzo omonimo di Donatella Di Pietrantonio), il film di Giuseppe Bonito molto meno.
La trama è più o meno quella illustrata e l’intreccio riserva solo un’altra scoperta. Il resto del film è l’illustrazione di come un alieno riluttante stringe relazioni con un mondo che non conosce e non lo conosce ma sembra, a tratti, accettarlo a modo proprio. C’è quindi la sensazione lungo tutto il film che lo sfondo sia più importante del primo piano, cioè che il cambio di vita in un momento particolarmente significativo, in cui si andava enfatizzando con rapidità la distanza tra le campagne e le città, tra chi è coinvolto nell’accelerazione del paese e chi invece ne è estraneo, sia funzionale al racconto di quella divisione. Eppure, anche lì, la distanza tra le due famiglie è ben chiara senza che il film ci costruisca sopra qualcos’altro. Questo personaggio, che all’inizio ci sembra destinata ad un downgrade della propria vita e che alla fine trova un suo strano equilibrio e rivede molti degli assunti con cui era partito, non si fa mai paradigmatico o anche solo, con ambizioni minori ma non meno soddisfacenti, sentimentalmente coinvolgente.