L'angelo dei muri, la recensione I TFF 39

Con L’angelo dei muri Lorenzo Bianchini approda da una produzione indipendente a una più mainstream, e il risultato è davvero notevole

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Nella recente ondata di film horror italiani apparsi su piccolo e grande schermo nell’ultimo periodo, Lorenzo Bianchini (Oltre il guado) si conferma voce originale, capace di inseguire un percorso personale con un preciso senso dell’orrore al di fuori delle tendenze più in voga. Con L’angelo dei muri, titolo di chiusura della sezione "Le stanze di Rol" all'interno del 39° Torino Film Festival, approda da una produzione indipendente a una più mainstream, e il risultato è davvero notevole.

Un lungo movimento di macchina ci introduce in un’abitazione dove un uomo anziano vive solo: il buio predomina, dall’esterno risuona il forte vento di Trieste e dall’interno sinistri scricchiolii. Lo seguiamo nella sua quotidianità, regolare e solitaria, che viene interrotta da un’ordinanza di sfratto. L’uomo però non vuole andarsene e mette a punto una strategia per continuare a vivere segretamente dentro casa: un muro in fondo al lungo corridoio dell’appartamento, un vero e proprio nascondiglio verticale dietro cui sparire. Le atmosfere sono lugubri, ma il modo in cui ci è mostrata la sua caparbietà le rende tragicomiche, tanto che sentiamo una certa tenerezza verso di lui. L’occhio della macchina da presa manifesta la sua presenza soffermandosi sui dettagli più inquietanti, che però all’inizio non sembrano trovare spiegazione, motivo d'essere, in un gioco di sottrazione e d'attese che da pochi punti di riferimento allo spettatore, fino all’inaspettata, e per questo ancora più sorprendente, rivelazione finale.

Le scene si protraggono simili e così la narrazione sembra aderire a quel recente filone (il cui manifesto è sicuramente Amour di Haneke) che narra la degenza di persone anziane, spesso malate. Ad interpretare il protagonista, troviamo Pierre Richard, attore francese noto soprattutto per ruoli comici (da La capra a Un profilo per due): un'operazione che potrebbe richiamare il recente Vortex di Gaspar Noé, con al centro la coppia di coniugi interpretati da due icone come Dario Argento e Françoise Lebrun. Ma, come a Noé, a Bianchini non interessa aprire un discorso sul corpo dell’attore e infarcirlo di citazioni o riflessioni sul Cinema. Piuttosto, ma in questo molto meglio del cineasta francese, rappresentare le derive della solitudine, concentrandosi sul versante soggettivo e intimo.

Ma poi la storia rilancia ancora: nell’appartamento, arriva una madre disperata con una figlia piccola, destinata a stravolgere i suoi piani. Le atmosfere si aprono a dolenti squarci melodrammatici, in una dimensione da fiaba gotica dal cuore nero, piena di neve, di storie raccontate a lume di candela, con un personaggio che passa dall’essere burbero a tenero: uno Scrooge triestino. Il fantastico non esorcizza il dolore e la paura, ma anzi gli acuisce; lo slancio verso mondi immaginari e bramati è frenato dall’emergere dei fantasmi interiori. La narrazione dunque si muove su binari diversi, in un caleidoscopio di emozioni.

Queste coordinate imbastiscono insieme la concezione di cinema e racconto che porta avanti il suo autore. Fa leva sulla dimensione percettiva dell’inquietudine, sul senso di angoscia e allucinazione, piuttosto che su facili spaventi o colpi di scena. Evita qualsiasi discorso tematico o psicologismo, senza dare appigli o spiegazioni rassicuranti. Il suo obbiettivo infatti non è scolpire i caratteri dei personaggi con background esplicativi, bensì scavare dentro l’abisso dell’animo umano, in un vortice dove ci si perde lentamente ma inesorabilmente. Bianchini dunque non insegue senza originalità modelli stranieri, cercando di ricollocarli in un contesto locale, o cade in derive autoriali che usano il genere come semplice facciata. Al contrario, lo abbraccia pienamente, in un ritorno alle pure radici dell’orrore: i riferimenti all'ambiente esterno si fanno sporadici, la centralità della location domestica sottolinea il focus sulla dimensione umana. Peccato solo per l’epilogo: dopo lo scioglimento, l’enfasi sui simbolismi e una sottolineatura non necessaria rischiano di rovinare il risultato finale. Ma l’assenza di qualunque catarsi o conforto riafferma l’impatto della visione.

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