Per lanciarsi dalle stelle, la recensione

La sceneggiatrice e il regista più interessanti del mondo del cinema per ragazzi italiano sono stati messi insieme, finalmente.

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Per lanciarsi dalle stelle, disponibile su Netflix dal 5 ottobre

Ci voleva davvero che qualcuno mettesse insieme Andrea Jublin e Alice Urciuolo. Il primo aveva avuto un esordio che dire sorprendente è poco (Banana, 7 lontani anni fa), il più classico dei coming of age italiani ma (assurdo a dirsi, lo sappiamo) fatto bene; la seconda è emersa raccontando esseri umani di qualche anno più grandi, cioè scrivendo alcune stagioni di Skam Italia e ora Prisma. Adesso entrambi si sono mossi più avanti di un po’ e in Per Lanciarsi dalle stelle la protagonista (come nel romanzo da cui tutto è tratto) è nella fase della vita in cui si cerca un lavoro, una stabilità, un senso ma ha dei problemi da adolescente e dovrà sbloccarsi, compiere un passo in avanti e cambiare, come in un coming of age. Tutto patrocinato da Netflix che al momento è il più grande committente di storie di ragazzi in Italia.

Nonostante la vicenda (quella del romanzo di Chiara Parenti) non sia proprio delle più attraenti, l’adattamento cerca di piegare tutto il più possibile verso lidi cinematografici, con uno sforzo che è opposto a quello dei film italiani tratti da romanzi (che invece spesso si aggrappano disperati alla letteratura sperando li salvi). La protagonista è vittima di ansie, tantissime ansie, è quindi bloccata, vorrebbe fare ma non riesce, vorrebbe amare ma non ce la fa, vorrebbe essere ma non ha il coraggio. Un conflitto eccessivamente basilare, mai davvero appassionante. L’evento che potrebbe sbloccare tutto però è già accaduto, ha perso una persona importante nella sua vita, quando il film inizia lei ha già elaborato la cosa, o almeno lo crede, e quello che Per lanciarsi dalle stelle racconta è il superamento di tutto questo attraverso gli altri. Per questa ragione tutto il film è un susseguirsi di micro-segmenti narrativi, piccole storie a sé che tuttavia funzionano molto poco e hanno scarso mordente. 

Eppure il miracolo della buona fattura fa sì che poi il grande arco narrativo, l’aprirsi della protagonista alla vita, ai rischi e soprattutto ai sentimenti (con la più classica delle doppie storie d’amore, quella con il bello da sempre bramato e quella con il ragazzo rassicurante), sia ottimo e convincente. Quello che viene messo sul piatto non è solo l’aprirsi ai sentimenti ma anche una maniera di vedere il mondo e inquadrare gli altri contagiosa. Merito ovviamente di una serie di invenzioni di scrittura che ben si adattano all’audiovisivo ma soprattutto merito di Jublin che già come in Banana dimostra una capacità eccezionale di dirigere gli attori (lavorando benissimo sui comprimari), una gestione del tono del film costante e precisa (mai troppo ridicolo, mai troppo smielato, mai convenzionale ma davvero mai fuori dagli schemi) e una padronanza del mezzo tale che anche le soluzioni più rubate come la rottura della quarta parete in stile Fleabag, quella cioè che è usata non solo per spiegare ma anche per creare un rapporto di forzata complicità tra la protagonista e il pubblico arrivando a un’intesa che non necessità di più di uno sguardo, non suonano velleitarie ma sono così ben rese, portate e dosate da apparire stranamente appropriate.

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