L'amore Bugiardo - Gone Girl, la recensione [1]

L'Amore Bugiardo - Gone Girl è un film dalle molteplici facce, ognuna più affascinante dell'altra

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“Amico, questo film è cattivo, è incredibilmente cattivo”.

E' stato lo stesso David Fincher a rivelarci che il suo amico e partner artistico Trent Reznor ha definito così la sua ultima incursione sul grande schermo.

E, in effetti, è difficile dare torto a Mr. Self Destruct.

L'Amore Bugiardo – Gone Girl è un film cattivo.

Cinico.

In primis nei confronti della malcapitata persona che si ritrova a doverlo analizzare, recensire stando attenta a soppesare con attenzione ogni singola parola per evitare di rivelare, o anche solamente accennare, dei passaggi nodali per descrivere in maniera più precisa il “senso” della pellicola. Se si potesse dare per scontato e assodato il fatto che tutti abbiano letto il gone girlromanzo omonimo di Gillian Flynn sarebbe tutto più facile e potrei anche terminare subito la frase “La storia comincia come se fosse un Rashomon 2.0 e poi...”.

Già. E poi.

E poi a Fincher piace spiazzare lo spettatore. Attività che persegue con successo, passione e dedizione fin dai giorni dell'agghiacciante finale di Se7en. Da quelli di un thriller atipico come Zodiac. Che, già per il semplice esito del dato storico, non può appartenere a tale categoria e infatti è più una splendida rappresentazione del mondo giornalistico dell'America di fine anni sessanta.

Da quelli di Fight Club, manifesto tanto tanto vituperato dalla critica cinematografica – questi snob radical chic che Fincher detesta, giustamente aggiungo io visto che qua su BadTaste amiamo mantenerci su posizioni il più possibile distanti da certi atteggiamenti perché, come direbbe Francesco Alò, “Siamo solo dei critici di merda!” - e drammaticamente attuale nel descrivere la svolta nichilista del mondo di oggi. Non ve ne accorgerete a livello conscio, ma sappiate che in quanto sostenitore del Progetto Mayhem ho inserito dei peni in questo articolo per sovvertire subliminalmente la calma e la tranquillità delle allegre famigliole.

Quella di Fincher è una filmografia fatta di opere così profondamente diverse fra loro, unite da un tratto comune: quando andiamo al cinema a vedere un film diretto dal regista di Denver diventiamo tutti dei Nicholas Van Orton, vittime di un gioco dal finale imprevedibile. Proprio per questo, il romanzo di Gillian Flynn è pane per i denti del regista, perché a lui in realtà interessa più che altro l'aspetto di...

E qua tocca di nuovo utilizzare questi fastidiosissimi puntini di sospensione. Indi per cui metto da parte la voglia morbosa di voler parlare apertamente della vicenda alla base della storia. Credetemi, ho una voglia matta di farlo perché diventerebbe più agevole contestualizzare la dichiarazione che il filmmaker ha rilasciato al sottoscritto e a Francesco Alò durante la nostra chiacchierata: “Voglio spiazzare il pubblico ogni volta, fare un film sempre diverso dal precedente”. Perché L'Amore Bugiardo – Gone Girl appartiene palesemente a David Fincher. Ogni singolo frame ha i cromosomi del suo artefice. Eppure riesce a essere dissimile da quanto già partorito e visto negli anni scorsi. Un autore così avvezzo a delle aperture a effetto, affidate a crediti iniziali barocchi, visivamente d'impatto, affida il prologo della “ragazza scomparsa” a delle immagini essenziali, a delle scritte in sovraimpressione che potrebbero ricordare il buio inizio di The Social Network. Ma qua il regista non deve dipingere il “semplice” contesto, il microcosmo di un ateneo della Ivy League; deve affrescare, sintetizzare, comunicare con pochi tratti della macchina da presa quello che la scrittrice descrive in svariate pagine. Gli esiti della crisi economica, il devastante impatto che ha avuto su una ex-ridente cittadina del Missouri, North Cartage. Il cinema è arte di sintesi e Fincher lo sa bene. Già al termine dei titoli, lo spettatore è perfettamente consapevole che “Cavoli, questo posto ha visto di sicuro giorni migliori”.

Come i due protagonisti Nick Dunne (Ben Affleck) e sua moglie Amy (Rosamund Pike). Uno, Nick, palesemente insopportabile, un babbeo di dimensioni colossali con quel suo sorriso da Mr. Splendido e quel suo portamento “100% Irish/American” che si traduce nella scelta di casting di un Affleck perfetto per la parte. Viene naturale domandarsi se Fincher abbia voluto l'attore in quanto consapevole del fatto che uno come lui tende facilmente ad attirare su di sé una dose colossale di antipatia.

Non mi spingo così lontano da affermare che si respiri aria di statuetta dorata perché forse è eccessivo, ma con questo film, Affleck regala un ulteriore, sonoro pernacchione ai suoi detrattori. Come se Gone Baby Gone, The Town e Argo non fossero stati sufficienti. Però con Rosamund Pike, bella, elegante, altera, austera, hitchcockiana nella sua algida bellezza upperclass lo faccio eccome.  Quello di Amy Dunne è il proverbiale ruolo della vita. E i due protagonisti sono circondati da Gone Girlun team di comprimari perfetto. Quasi diabolico, verrebbe da dire, per come traduce sullo schermo le suggestioni della scrittrice. Neil Patrick Harris potrebbe sembrare, in prima istanza, troppo scolastico nella sua maniera d'impersonare il “cocco di mamma” di buona famiglia, eppure è protagonista di un passaggio che, in riferimento anche a quella che è la sua vita privata, diviene quasi machiavellico. "Molto meta", per citare un personaggio del film. Tyler Perry riassume su di sé – la sintesi, di nuovo – le caratteristiche che nel libro erano proprie dell'avvocato Tanner Bolt, bianco, e della moglie afroamericana. Patrick Fugit e Kim Dickens magistrali nel dare vita uno a un detective palesemente convinto della colpevolezza di Nick, l'altra decisamente più dubbiosa e propensa a...

Puntini di sospensione, sì.

E nel tessere la sua tela fatta di molteplici piani di verità, un concetto relativo d'altronde, di riflessioni sulla gogna mediatica condotta da quei giornalisti che, talvolta, vanno così poco a genio al regista, di depistaggi nei confronti dello spettatore, è impossibile non dare la giusta attenzione al rapporto fra David Fincher, il deus-ex machina dei Nine Inch Nails Trent Reznor e il produttore musicale inglese Atticus Ross. Tutto il film è pervaso da un'atmosfera vagamente sinistra, perturbante, ottimamente valorizzata dalle musiche, dai suoni creati dai due artisti. Brani che partono quieti, quasi rassicuranti, per poi affidare a sonorità distorte e battiti di sottofondo, la creazione di una dissonanza che riesce a condurre nel territorio dello straniamento.

Facendo perdere allo spettatore ogni punto di riferimento.

Perché L'Amore Bugiardo – Gone Girl è tante cose, una ragnatela fatta di innumerevoli fili.

E' un thriller abilmente confezionato con dei twist narrativi capaci di sorprendere più volte lo spettatore.

E' una riflessione sulla relatività, sulla soggettività di un concetto come la verità.

E' una cinica rappresentazione di come i media si siano ormai sostituiti quasi del tutto alle aule dei tribunali, trasformando drammi umani in baracconate date in pasto allo share e a un'opinione pubblica con la bava alla bocca.

E' una collezione di sontuose prove attoriali e scelte di casting oculate.

E' un'amara considerazione sul matrimonio.

E', forse, il punto massimo, lo zenit dell'unione artistica fra la triade Reznor/Ross/Fincher.

E tutte queste fila sono tessute e tenute insieme da David Fincher con quella sapienza e quell'intelligenza che solo i più grandi registi possono vantare.

Perché, come dice lui stesso, “Ci sono centinaia di maniere per riprendere una scena, ma, alla fine della fiera, si riducono sempre solo a due: e una è quella sbagliata”.

Ma David Fincher solitamente sceglie sempre quell'altra.

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