L'amico del cuore, la recensione
L'amico del cuore è una commovente storia vera che, grazie alla regia delicata di Gabriela Cowperwaithe, riesce a tirare fuori da un dramma sulla malattia tutta la sincerità di un rapporto d'amicizia profondo
Una storia di amicizia pervasa dall’incombenza della morte: questo è L’amico del cuore. Non una grande storia, nel senso di platealmente votata al drammatico, ma la storia vera di un grande rapporto, diretto da Gabriela Cowperthwaite con una significativa delicatezza. Non uno struggente film sul cancro, ma un film quasi sussurrato, sottilmente drammatico, che mentre ci illude di stare parlando della morte, silenziosamente ci porta soprattutto a capire (e lo faremo esattamente insieme ai personaggi) che tutto il dolore che si è visto è stato più sopportabile perché ad addolcirlo c’era una persona “speciale”. L’amico del cuore è infatti, banalmente, la storia di un amico.
Dal titolo sembra scontato (quello italiano purtroppo lo rende molto più smielato di quanto sia, ovvero quasi per nulla, mentre l’originale “Our friend” restituisce meglio la sua sobrietà), ma la regista Gabriela Cowperthwaite e lo sceneggiatore Brad Ingelsby decidono invece, colpendo nel segno, di non soffermarsi mai troppo su Dave. Il film infatti non sottolinea mai in alcun modo la sua importanza, semplicemente ce lo fa vedere nel suo essere un buon amico: porta le bambine a scuola, prepara il pranzo, porta il cane dal veterinario. Nessuna smanceria o pesante pacca sulla spalla. Ma è proprio perché la regia gli dedica lo stesso spazio di Nicole e Matt sullo schermo, e perché la sceneggiatura rende palese il suo spessore drammatico solo alla fine (la scena in cui Matt gli dedica un articolo, quello da cui è poi stato tratto il film), che il tema si sprigiona così all’improvviso, inaspettatamente, nonostante sia stato davanti a noi per tutto il tempo. E diventa incredibilmente reale, veritiero.
In L’amico del cuore nessuno è perfetto o viene idealizzato, disegnato come se dovesse soltanto servire da perno per far vedere pregi/difetti degli altri personaggi. Sono tutti difettosi e tutti allo stesso modo positivi, visti semplicemente come "buone persone”. Allo stesso modo, il cancro non serve per rivelare qualcosa che non si sapeva prima: è lì semplicemente come presenza reale, evento casuale nell’orizzonte delle possibilità.
Senza pietismo o senza eccessiva crudezza, la regia ti fa godere/soffrire gli attimi, si nasconde tra i muri e osserva silenziosa senza farsi mai vedere. A volte un po’ troppo nascosta, affida tutto alla significatività stessa dei momenti che filma, che in alcuni casi non parlano o non commuovono come vorrebbero. In quei casi, quasi impercettibili, si ha la sensazione che sarebbe servito qualcosa di più. Una vicinanza maggiore, una prospettiva diversa. Ma, appunto, si tratta di dettagli.
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