Laila in Haifa, la recensione | Venezia 77

La punta più insulsa e pretenziosa della pretenziosa carriera di Amos Gitai arriva con Laila in Haifa

Critico e giornalista cinematografico


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Inizia con uno dei protagonisti che viene malmenato un film in cui più volte si finisce a pensare che forse non era una cattiva idea, e in fondo poche gliene hanno date. Laila In Haifa è l’apoteosi di Amos Gitai, il film peggiore di una carriera votata al martirio (dello spettatore), la più esplicita dichiarazione di fatica di fronte al tempo moderno, di fronte al cinema come macchina delle attrazioni e anche proprio di fronte al lavoro di cineasta.

I temi sono sempre quelli, quelli grandissimi e giganti della sua terra (il contrasto e la convivenza più che difficile tra israeliani e palestinesi), l’arte e la sua importanza in tempi difficili, l’amore. Il modo di affrontarli è il più immediato: tante coppie in un locale, seguiamo un po’ gli uni un po’ gli altri che litigano, battibeccano e si minacciano. Ogni coppia porta un “tema”. Nessuna porta del cinema.

Il problema, come sempre, è che Gitai sembra pensare i suoi film intorno ad una posizione politica e poi li scrive in funzione di quel pensiero. Il risultato così è che hai sempre il sentore che della trama e dei personaggi non gli interessi nulla. E se non interessa a lui, figuriamoci quanto possono interessare a noi le storie di queste coppiette molto cool e altere di Haifa, personaggi in cui nessuno ha soffiato un po’ di umanità e di conseguenza le loro peripezie mancano di qualsiasi mordente o anche dei principi base dell’identificazione.

Gli interessa palesemente di più far dialogare un’israeliana e una palestinese su torti e ragioni delle loro fazioni, anche se tutto questo non ha economia in una trama esile esile se non proprio pretestuosa.

Ma ancora più fastidioso è forse il fatto che queste sentenze che fa sparare ai suoi personaggi siano anche di una banalità sconvolgente. Almeno Assayas quando lo fa in Il gioco delle coppie, si assicura di aver qualcosa da dire sull’industria culturale, non metterebbe mai una frase come: “A volte nell’arte sembra che tutto sia stato fatto”, che è il grado zero del dibattito, oltre che un tema vecchio di 20 se non 30 anni e ampiamente superato. “Ok, boomer” è la frase di risposta per metà delle sentenze del film che nessuno purtroppo pronuncia.

Ma fin qui arriva “solo” il contenuto del film. È la forma che davvero fa arrabbiare. Perché a fronte di piccoli virtuosismi di ripresa e lievi pianisequenza, Gitai come spesso gli capita mette in scena uomini e donne altere e distanti, gelidi senza una ragione, sempre accigliati e fastidiosamente “migliori”. Allo zenith del fastidio arriva a far recitare i dialoghi ai personaggi senza guardarsi. Due persone parlano ma invece di guardarsi declamano le battute guardando un altrove poetico e sognante (e nemmeno lo stesso altrove, uno in una direzione e l’altra in un’altra), sempre intensi di quell’intensità artefatta che abbonda nei più pretenziosi teatrini universitari.

Cosa c’è davvero in questa umanità supercool che si vede “nel miglior locale di Haifa” e dibatte dei temi più importanti come se avessero l’ultima parola su ogni tema? Gitai pare convintissimo ci sia tutto, che ci sia il vero compito dell’intellettuale (cioè lui, ovviamente): insegnare, indicare la via, educare le masse. Lo spettatore può facilmente credere l’esatto opposto.

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