Lady in the Water

Una creatura del mare arriva in soccorso di un uomo per aiutarlo a ritrovare la sua strada. Ma sarà lei ad avere difficoltà a tornare a casa. L’ultima pellicola di M. Night Shyamalan, l’autore de Il Sesto senso e Signs, è deludente e irritante…

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E’ preoccupante quando la storia della realizzazione di un film è più interessante del film stesso. Eppure, è esattamente quello che è capitato a Lady in the Water, con il divorzio di Shyamalan dalla Disney (colpevole a suo dire di non credere a sufficienza nel film) e l’arrivo in casa Warner. In mezzo, polemiche abbastanza puerili (sembra che uno dei motivi scatenanti fosse il fatto che uno dei dirigenti della Casa del topo non fosse nella sua abitazione al momento dell’arrivo della sceneggiatura – di domenica! - pronto a leggere il prezioso manoscritto e che questo abbia mandato su tutte le furie il regista) e soprattutto un libro che racconta tutte queste visissitudini, uscito prima del film (particolare inconsueto, considerando le difficoltà narrate).

In realtà, non è difficile comprendere le perplessità di Nina Jacobsen, responsabile di produzione della Disney, e dei suoi colleghi, dubbi peraltro confermati dai pessimi risultati della pellicola nel mondo (finora 65 milioni di dollari di incassi, a fronte dei 250 di The Village, considerata assurdamente un mezzo disastro).
Verrebbe quasi da pensare che Lady in the Water sia un flop voluto (uno Springtime for Hitler contemporaneo?), perché era difficile fare peggio. Non si tratta tanto della storia (che non è così brutta come sostengono certi critici americani), quanto delle scelte del regista, che ha fatto di tutto per farsi massacrare.

Insomma, ritagliarsi una parte che non sia il solito cammeo potrebbe anche andar bene (le sue capacità interpretative non sono affatto male), ma scegliersi un ruolo così presuntuoso non è un buon segno (diciamo che non si accontenta di far parte della storia di Story, ma della Storia con la S maiuscola).
Così come non ci sarebbe nulla di male nel mettere in scena un critico cinematografico e rappresentarlo come un idiota borioso. Quello che non va bene è che la sua ultima scena sia la più brutta del film, una sorta di citazione di Scream venuta male e decisamente in ritardo. Peraltro, se Shyamalan voleva rappresentare l’inutilità della critica cinematografica, magari non avrebbe dovuto scrivere una storia che sembra fatta apposta per rispondere alle lamentele di alcuni giornalisti nei confronti delle sue opere.

Per una volta, infatti, nessun finale a sorpresa (l’unica ‘rivelazione’ è chiarissima fin dall’inizio), come era stato finora, nella tradizione di Ai confini della realtà. Ma soprattutto la voglia di narrare una storia più criptica e complessa (inutilmente, direi). Ma il problema non è solo che rimangono molti dubbi sulla ‘favola’ a cui assistiamo. Intanto, non si capisce quale sia il fulcro della vicenda. Infatti, il personaggio del custode (interpretato da un Paul Giamatti sufficientemente convincente) dovrebbe essere al centro della storia, ma la sua evoluzione avviene praticamente subito, senza quindi lasciarci il tempo di appassionarci al suo cambiamento. Dovrebbe quindi essere la creatura marina, Story, a portare avanti l’azione, ma questo è reso impossibile dalla sua personalità passiva (sono gli altri che fanno praticamente tutto per lei) e da un’interpretazione di Bryce Dallas Howard che non è assolutamente all’altezza di quella (sfolgorante) in The Village.

Inoltre, un altro (incredibile) difetto della storia è che tutti credono immediatamente all’esistenza di una creatura da fiaba e si fanno in quattro per aiutarla, rendendo quindi i normali ostacoli che dovrebbero frapporsi all’obiettivo della protagonista molto meno alti. E poi, sappiamo molto poco di tutti i comprimari della storia, così quando c’è bisogno di un aiuto collettivo abbiamo sostanzialmente un gruppo di sconosciuti davanti.
Che dire poi della parte finale, in cui un indovino trova un modo involontariamente ridicolo di dare dei consigli ai personaggi principali? E, in generale, è lo stesso Shyamalan a non credere degnamente a/lla Story/ia, quando rende il racconto inutilmente frammentario e autoreferenziale (penso alle rivelazioni della madre cinese, che devono venire tradotte dalla figlia).

Decisamente, un peccato, considerando che la prima mezz’ora prometteva bene, con menzione speciale per la magnifica scena subacquea con Paul Giamatti. E diversi elementi tecnici meritano comunque un giudizio positivo. Le musiche di James Newton Howard sono notevoli, anche se spesso troppo enfatiche e costrette a sopperire le emozioni che mancano (ma questa non è certo colpa del compositore). Discorso simile per la fotografia di Christopher Doyle (il genio che ha lavorato su quasi tutti i film di Wong Kar Wai), che a tratti è sfolgorante, ma talvolta anche pretenziosa.

Insomma, una pellicola non riuscita, come spesso capita per le opere che sono dichiaratamente troppo personali.
Viene da pensare che, se il protagonista aveva bisogno di una creatura marina per ritrovare se stesso, magari la cosa migliore che potesse capitare a Shyamalan era un flop commerciale e critico come questo. Ora, è arrivato il momento di rimettersi in piedi e di dimostrarci di essere uno dei maggiori registi in circolazione…

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