The Lady: la recensione

[Festival di Roma 2011] Un Luc Besson ai minimi termini per una storia che avrebbe meritato altre mani e altre attenzioni...

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Certe storie vere, al di là del valore con cui si realizza poi la trasposizione “artistica”, vale la pena che siano raccontate. Il mezzo, che sia un libro, uno spettacolo teatrale o un film, aumenta le probabilità che altra gente in giro per il mondo ne vengano a conoscenza e magari ne siano poi così incuriositi da volere approfondire privatamente la questione.

Per The Lady una premessa del genere è necessaria. Un film su Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel lontano 1991, ma ancora in lotta nell’ex Birmania (ora Myanmar) per i diritti civili del suo paese nonché per una democrazia che sia reale e non solo annunciata, andava realizzato e il fatto che dietro la macchina da presa ci sia un nome altisonante come Luc Besson è senza dubbio una buona garanzia di visibilità. Peccato che, a parte questo, ovvero “le intenzioni”, ci sia poco altro da lodare in questo progetto che fin dalle prime immagini trasuda irritante agiografia e retorica

Un tema così delicato e attuale (Aung San Suu Kyi è stata liberata solo lo scorso novembre) meritava un’attenzione maggiore nella sceneggiatura, oltre che una regia meno zuccherosa, con utilizzo pressoché ossessivo della colonna sonora a sottolineare ogni emozione raccontata sullo schermo, con momenti sonori che sembrano addirittura plagi di Braveheart riletti con xilofono in salsa birmana. Per sua stessa ammissione, Besson ha deciso di concentrarsi sull’aspetto privato dell’attivista, sul suo rapporto con il marito inglese e su quei figli che l’aspettano da lontano, ma la politica c’è comunque  e non la si può rappresentare in maniera tanto leggera. E così se in una scena si dice che la protagonista non può essere eletta perché sposata con uno straniero, non si può far vedere un attimo dopo che lei vince le elezioni, senza spiegare come abbia aggirato quella legge. Per non parlare degli arresti domiciliari che appaiono a intermittenza. Il regime militare birmano viene rappresentato come una combriccola di dittatori dello stato libero di Bananas, con divise troppo grandi per loro e una voglia di intimorire che, sullo schermo (non nella realtà) si traduce spesso in improbabili: “Lei è pericolosa, dobbiamo fare qualcosa che le faccia davvero male: invitiamo suo marito a lasciare presto la Birmania dato che gli è scaduto il visto. Poi però lo facciamo tornare se compila bene il formulario”.

E tra una serie di personaggi che leggono solo Gandhi, attivisti che trovano sempre militari comprensivi che leggono i poster in inglese e si interrogano sul senso della vita o lanciano fogliettini con i numeri della vittoria attraverso le sbarre di una cella, le semplificazioni sono tante e spesso così ridicole che a perderci è la storia stessa di Aung San Suu Kyi. Per non parlare poi di come il film si chiude, un “otto anni dopo” che taglia corto sui cortei dei monaci buddhisti uccisi senza pietà e sulla definitiva liberazione dell'attivista.

La sensazione finale è che Besson abbia trasposto una vecchia sceneggiatura che girava da tempo senza neanche rileggerla o attualizzandola alla luce degli ultimi accadimenti, cercando poi semplicemente di sfruttare la popolarità della acquisita dalla vicenda con la liberazione del premio Nobel.

E così anche le intense interpretazioni di Michelle Yeoh e David Thewlis (il Remus Lupin di Harry Potter) si perdono in questo mare di imprecisioni che a volte possono anche coinvolgere e commuovere, ma quando anche accade è solo a causa del fatto che si parla di una storia vera: dietro la finzione cinematografica c’è gente he ha sofferto e continua a soffrire ancora.

Dopo i Minimei, Besson si conferma sempre più deludente quando si tratta di regia. Con la sua ambizione e visionarietà ha fatto tanto per il cinema d’intrattenimento europeo, ma se non deciderà di impegnarsi di più dietro la macchina da presa sarò meglio che continui la sua missione solo nelle vesti di produttore.

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