I riferimenti di
Greta Gerwig sono molto chiari. Se stessa, prima di tutto, la sua adolescenza a Sacramento, i suoi desideri e le sue aspirazioni guardate con la tenerezza di chi, alla fine, ha raggiunto tutto quel che voleva, e poi il cinema cui ha preso parte, quello di
Noah Baumbach e la scena indie americana degli ultimi anni con il suo stile minimale e la sua attenzione a personaggi che professano una decisa forma di originalità e diversità dal coro. La particolarità prima di una buona ragione per professarla. Tutto è avvolto in una commedia adolescenziale dolce e amara, ambientata al liceo, tempestata di liti con i genitori, difficoltà con le amiche e ragazzi troppo svegli o troppo mosci.
Non ci sono dubbi che in tutto questo il personaggio principale, ottimamente interpretato da Saoirse Ronan (nella sua prima interpretazione di cui andare fiera davvero), sia la cosa migliore che il film abbia da offrire, così amara, cinica, dura con se stessa, determinata e sottilmente in difficoltà, un ritratto non privo di un certo amore per se stessa di Greta Gerwig che però è perfetto per raccontare le pulsioni che premono sotto l’incertezza da ultimo anno del liceo. È il resto di Lady Bird a lasciare un po’ più perplessi, perché si tratta di un film dotato della medesima determinazione della propria protagonista/autrice che non vuole essere una commedia adolescenziale come le altre, vuole essere di più e lo vuole mostrare a tutti.
Lady Bird non si accontenta di raccontare qualcosa di divertente ed emozionante con intelligenza (ce l’avrebbe potuta fare), ma vuole compiere un ragionamento su provincia e città, sogni e loro realizzazione, odio e amore familiare, su tutti i contrasti che rimangono irrisolti nella vita di ognuno e alla fine, lo capiamo, danno a
Lady Bird (la protagonista non il film) una forma di nostalgia. Ma non si può raggiungere qualcosa di così sofisticato con un film così poco sofisticato che lavora solo sull’interpretazione e un po’ sulla scrittura. Per farlo sarebbe servito un film intero di scene come quella che all’inizio fa immaginare di avere chissà che opera davanti a sé: una conversazione con la madre in macchina scivola lentamente in polemica e litigio, con naturalezza impeccabile, per finire con lei, talmente insofferente della gabbia dei genitori, talmente desiderosa di libertà che comicamente si getta dall’auto in corsa. Quello è ciò che cerca
Greta Gerwig per tutto il film, un momento, un gesto e un’immagine che possano dire tutto quel che i dialoghi non arrivano a esprimere. Ma non lo trova.
E quel finale sospeso, un po’ triste e immerso in un silenzio quasi amaro e commovente è uno sforzo troppo piccolo e troppo banale per colpire davvero. Semmai è un buon simbolo di quel che il film è stato: ambizioni gigantesche verso le quali correre e impegnarsi, imitando tutto quel che di buono si è visto intorno a sé e sperando che aderire a uno stile e un genere (l’indie americano) possa bastare. È sufficiente per un buon film, quello sì, ma non per quello che Lady Bird pretende di essere.