Lacci, la recensione | Venezia 77

È con l’intelligenza del montaggio e il controllo sulla messinscena di Luchetti che Lacci, puntando dritto all’emotività dello spettatore, riesce a fare centro sulle ferite aperte

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La dimensione del ricordo non può essere lineare. È fatta di oggetti, parole rivelatrici, motivetti musicali e piccoli particolari che, se rievocati, ci fanno rivivere gli attimi passati in modo tanto improvviso quanto brutale. Questa è la chiave di Lacci, questo è lo sguardo di Daniele Luchetti, che dopo Momenti di trascurabile felicità (anch’esso co-scritto con Francesco Piccolo) continua a ragionare brillantemente sull’importanza della prospettiva, sul significato dei punti di vista. E, come nel bellissimo La scuola, questo nuovo adattamento da un romanzo di Domenico Starnone è un elogio alla dignità dei dolori di una vita comune.

Se nell’ultimo film la ricerca di una nuova prospettiva era compiuta da un uomo che ritornava paradossalmente indietro dalla morte, rivalutando in seguito tutta la sua esistenza, qui lo sguardo indagatore è molteplice (e totalmente melodrammatico). È quello prima di Vanda (Alba Rohrwacher), poi di Aldo (Luigi Lo Cascio), e poi dei loro figli, coinvolti per forza di cose nella crisi genitoriale che porterà tutti quanti a sviluppare ansie e rancori indelebili l’uno verso l’altro. Dotato di una trama semplicissima, Lacci punta tutto sul gioco di incastri tra passato e presente, avendo sempre il controllo delle informazioni passate allo spettatore, che ben dosate e ragionate assumono un certo significato e poi un altro ancora nel gioco dei punti di vista. Una scatola, una radio, un gatto con uno strano nome e ovviamente i lacci delle scarpe fungono qui da oggetti-emozionali, elementi sineddotici che richiedono di essere interpretati, analizzati e ri-analizzati per potere essere compresi non solo dai personaggi ma anche dallo spettatore, che solo nelle diverse versioni riesce veramente a comprendere e contestualizzare.

Luchetti sceglie di stare sempre vicino ai personaggi, di muoversi quasi solo in interni, abbandonando completamente i fondali cittadini che accolgono la vicenda: di Napoli e di Roma non si vede proprio niente, e a niente effettivamente servono. Sono le stanze, prima piene di vita, poi vuote ma riempite da voci esterne (a ribadirne la vuotezza metaforica) o devastate da oggetti che vengono continuamente rotti o lanciati in preda alla rabbia, a essere le vere protagoniste. La casa diventa allora il luogo più emozionale di tutti, l’enorme contenitore di tutti quei ricordi: prima nido accogliente, poi fortezza, questa cambia assieme ai personaggi, e col tempo accumula significati, diventa la rappresentazione di tutte le ferite. Solo affrontandola definitivamente, allora, si potrà forse andare avanti.

È quindi con l’intelligenza del montaggio e il controllo sulla messinscena di Luchetti che Lacci, puntando dritto all’emotività dello spettatore, riesce a fare centro sulle ferite aperte. Perchè chiunque abbia assistito alla tristezza dei propri genitori, alla loro rabbia e ai loro gesti di sfogo, non potrà non immedesimarsi.

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