Lacci, la recensione | Venezia 77
È con l’intelligenza del montaggio e il controllo sulla messinscena di Luchetti che Lacci, puntando dritto all’emotività dello spettatore, riesce a fare centro sulle ferite aperte
Se nell’ultimo film la ricerca di una nuova prospettiva era compiuta da un uomo che ritornava paradossalmente indietro dalla morte, rivalutando in seguito tutta la sua esistenza, qui lo sguardo indagatore è molteplice (e totalmente melodrammatico). È quello prima di Vanda (Alba Rohrwacher), poi di Aldo (Luigi Lo Cascio), e poi dei loro figli, coinvolti per forza di cose nella crisi genitoriale che porterà tutti quanti a sviluppare ansie e rancori indelebili l’uno verso l’altro. Dotato di una trama semplicissima, Lacci punta tutto sul gioco di incastri tra passato e presente, avendo sempre il controllo delle informazioni passate allo spettatore, che ben dosate e ragionate assumono un certo significato e poi un altro ancora nel gioco dei punti di vista. Una scatola, una radio, un gatto con uno strano nome e ovviamente i lacci delle scarpe fungono qui da oggetti-emozionali, elementi sineddotici che richiedono di essere interpretati, analizzati e ri-analizzati per potere essere compresi non solo dai personaggi ma anche dallo spettatore, che solo nelle diverse versioni riesce veramente a comprendere e contestualizzare.
È quindi con l’intelligenza del montaggio e il controllo sulla messinscena di Luchetti che Lacci, puntando dritto all’emotività dello spettatore, riesce a fare centro sulle ferite aperte. Perchè chiunque abbia assistito alla tristezza dei propri genitori, alla loro rabbia e ai loro gesti di sfogo, non potrà non immedesimarsi.