L’accademia del bene e del male, la recensione

L’accademia del bene e del male è un film sgangherato e che avrebbe bisogno di una sforbiciata, ma ha un’energia rara per essere un clone di Harry Potter

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L’accademia del bene e del male è su Netflix

Ci sono almeno 503 milioni di motivi per odiare L’accademia del bene e del male, ma ce n’è anche più di uno per, se non amarlo, quantomeno apprezzarlo per quel che prova a fare per staccarsi dalla media dei prodotti simili. Tratto da un romanzo (il primo di un’esalogia) del floridiano Soman Chainani, è innanzitutto il nuovo film di Paul Feig, uno che dopo la sua versione di Ghostbusters avrà bisogno ancora di qualche anno per farsi accettare da una (cospicua) fetta di pubblico; e vi possiamo assicurare che L’accademia del bene e del male non lo aiuterà in questo senso. Dopo aver rovinato – di questo lo si accusa – un franchise storico, Feig si cimenta con lo young adult di stampo palesemente potteriano, girando un film che riesce a essere contemporaneamente troppo lungo e sintetico ai limiti dell’incomprensibile, nel quale un cast sulla carta clamoroso viene sacrificato sull’altare della CGI e delle tentazioni videoclippare, come se gli anni Ottanta non fossero mai finiti.

È solo l’inizio: si potrebbe andare avanti per ore a elencare i motivi per cui bocciare L’accademia del bene e del male. La storia, per una volta non di ambientazione urbano-contemporanea ma finto-medievale, è quella di due amiche, Sophie e Agatha. La prima (Sophia Anne Caruso) sogna di essere una principessa ma vive in povertà e oppressa dalla matrigna (Rachel Bloom, primo spreco del film); la seconda (Sofia Wylie – tra cast e personaggi il film è pieno di variazioni di “Sofia”) vive con la madre in una capanna di fianco al cimitero, e viene accusata dal villaggio di essere una strega.

Dove Harry Potter veniva però reclutato da Hogwarts, della quale non sospettava neanche l’esistenza, Sophie e Agatha vanno a cercarsi attivamente una via di fuga dalla mediocrità. Come in Harry Potter, però, questa via di fuga è rappresentata da una scuola di magia-e-dintorni: l’eponima Accademia del bene e del male, dove si sono formati tutti i grandi eroi e i grandi villain delle grandi storie del passato e del presente. Immaginate J.K. Rowling che incontra Shrek: nella scuola, nella quale le due vengono trasportate da un gigantesco corvo scheletrico dopo che Sophie ha scritto una lettera al preside pregandolo di essere ammessa, incontriamo tra l’altro il figlio di Capitan Uncino e quello di Re Artù, ovviamente iscritti ai due lati opposti dell’Accademia. Perché sì, il titolo non è metaforico ma letterale: per mantenere l’equilibrio nel mondo, le due scuole formano rispettivamente gli eroi e i cattivoni che verranno sconfitti dagli eroi, per poi impacchettare le loro esperienze sotto forma di leggende, racconti e romanzi.

Il twist è che Sophie, convinta di meritarsi un posto nella scuola del Bene, viene spedita in quella del Male, mentre Agatha la strega si ritrova suo malgrado tra le principesse. Lo scambio errato (ma lo sarà davvero?) è il motore dell’intera narrazione, e il percorso di crescita delle due, e del loro rapporto, è il cuore di L’accademia del bene e del male. Certo, c’è anche una storia inutilmente complicata che coinvolge i fondatori dell’accademia, la magia del sangue e probabilmente la fine del mondo, ma tutto questo a Paul Feig interessa più o meno quanto a Mike Newell interessava il Torneo Tremaghi: il film è prima di tutto la storia di un’amicizia, nonché la storia di due persone che si trovano all’improvviso al di fuori della propria comfort zone. È più Mean Girls che Harry Potter, insomma, per quanto Feig si impegni a farci sentire a casa, tra lezioni nella pericolosa foresta fuori dalla scuola e balli di fine anno che vengono organizzati dopo appena un mese di lezioni.

È difficile prendere sul serio L’accademia del bene e del male in quanto fantasy, in quanto avventura, in quanto film che in teoria parla della fine del mondo. Feig vuole la baracconata, vuole cascate di costumi e di colori, vuole usare Billie Eilish e Britney Spears per raccontarci l’evoluzione delle sue protagoniste. Ha a disposizione Michelle Yeoh e si diverte ad assegnarle il ruolo di quella che insegna alle principesse buone a sorridere. Ha a disposizione Charlize Theron e decide di pettinarla come Johnny Depp nell’Alice di Burton e di chiederle di fare un’altra volta la cattiva. Ha Kerry Washington e le assegna quello che forse è il primo ruolo esplicitamente comico della sua carriera. Ma ha anche due protagoniste che ci credono tantissimo e alle quali Feig dedica la gran parte delle sue attenzioni, lasciando loro modo di brillare anche a fronte di dialoghi da scuola elementare. E ha soprattutto una più intangibile voglia di fare casino: la maggior parte di quello che succede lo fa in maniera molto più vistosa di quello che dovrebbe, e a un ritmo sempre forsennato. Questo da un lato elimina qualsiasi senso di geografia e di appartenenza al luogo, uno dei grandi segreti della saga potteriana: l’Accademia si riduce a tre sfarzosi set e qualche panoramica esterna, non sembra un luogo realmente abitato ma solo uno sfondo per una lunga sequenza di scene madre. Dall’altro, però, questa scelta rende L’accademia del bene e del male una giostra costante, con qualche momento di azzeccata ironia, molta più azione di quello che ci si potrebbe aspettare dal genere, e pure il buon gusto di chiudere la storia (pur senza rinunciare a lanciare eventuali sequel, che chissà se vedranno mai la luce).

In un panorama deprimente come quello del fantasy adolescenziale post-Potter, il film di Paul Feig si distingue per non essere neanche lontanamente il peggiore del mucchio: a volte basta poco.

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