La vita che volevamo, la recensione
La vita che volevamo di Ulrike Kofler è un asciuttissimo film intimista, dotato di una potenza evocativa che proprio nel gioco della sottrazione trae tutta la sua forza, la sua eleganza, la sua rara delicatezza.
Alice (Lavinia Wilson) e Niklas (Elyas M’Barek) dopo vari tentativi di avere un figlio decidono di concedersi una vacanza in un resort sardo per trovare un po’ di pace e silenzio, uno spazio fatto di discrezione e poche parole. Ma proprio queste cose, poco dopo essere arrivati nell’appartamento, gli vengono subito tolte: i vicini di casa sono infatti rumorosi ed espansivi. E hanno due figli.
Subito sembra che sia l’invidia la forza trainante della strana attrazione tra le due coppie: Niklas che guarda la moglie del vicino e vuole fare amicizia con il marito, Alice che guarda i loro figli e sembra voler trovare un qualche modo per avvicinarcisi. Ma subito la Kofler smorza questa direzione stereotipica, questa impressione e dopo avercela suggerita ci fa notare, mano a mano, che il vero punto è come i protagonisti osservano i loro desideri. E come il loro osservarli sia drammaticamente diverso. È allora proprio lo sguardo ciò che divide Alice da Niklas: loro si vedono ma non si guardano più, perché indirizzano il loro sguardo – e quindi il loro amore, il loro desiderio – altrove.La vita che volevamo è una carezza fatta di silenzi, pochi dialoghi e tantissimi gesti evocativi. Alice e Niklas sembrano essere in un limbo di incomunicabilità senza uscita, girano a vuoto come pesci rossi in una boccia di vetro. E, in effetti, sembra proprio che la Kofler abbia messo i suoi personaggi in un acquario: le distanze con i vicini sono azzerate, è tutto osservabile tramite una siepe, una finestra aperta, o ascoltabile attraverso un muro sottile, in un gioco sopraffino di regia e di montaggio (la Kofler è infatti anche una montatrice lei stessa, e si vede) che ci ricorda il valore di una messa in scena significativa.
La cosa migliore di La vita che volevamo è però forse il suo conservare un’osservazione estremamente semplice come spiegazione di tutto un caos di irrazionalità (emotiva, ma anche linguistica) e di invasione (degli spazi, privati ma anche pubblici), e che ci viene fatta intuire un po’ alla volta, ma che solo alla fine comprendiamo. Non si è mai trattato di voler essere madre o di voler essere un padre di famiglia, di voler essere desiderabili o amabili. Si è sempre trattato, semplicemente, di non voler essere dei perdenti nella vita. Qualsiasi cosa questo voglia dire per chi guarda.