La vita che verrà - Herself, la recensione
Con un occhio agli elementi più superficiali del cinema di Ken Loach, Herself vuole fare impegno civile ma in realtà fa solo una favola
Quando un padre mena una madre sullo schermo sappiamo che è solo il primo di una serie di abusi. Phyllida Lloyd dismette i fiori e il sole di Mamma mia!, abbandona il ritratto politico di The Iron Lady e si veste da Ken Loach per una storia pienamente loachiana di sofferenza e riscatto tramite una comunità di pari, in barba ad uno stato assente. Al centro non c’è un uomo e il suo lavoro ma una donna e la sua lotta per non perdere le figlie contro un marito che l’ha menata così tanto da romperle un polso. Lei ha trovato come scappare ma non trova la casa in cui stare. Deciderà di costruirla, perché (ammesso che si abbia un terreno in cui costruirla) paradossalmente costa meno. Solo che non si può fare da soli.
Quella di La vita che verrà è una storia come ne esistono solo nei film, perfettamente pensata e scritta per rientrare in schemi e strutture narrativi, pronta al classico sali e scendi di emozioni con ampissimi margini di redenzione finale. Vuole suscitare necessaria indignazione per problemi che esistono realmente ma lo fa con tinte così forti da renderle questioni più cinematografiche che reali, non ha nessuna voglia di affrontare le contraddizioni della questione, è un film dalla parte delle vittime che nel pubblico vuole reclutare adepti e non stimolare un pensiero. Il fatto che lo faccia con il più nobile dei posizionamenti poi, ovviamente, lo rende in teoria inattaccabile.
Phyllida Lloyd è più brava qui che in Mamma mia! nel lavoro con gli attori, gestisce bene sia le bambine che il volto della madre, la cosa più complicata nel suo misto di dignità, determinazione e debolezza, eppure è tale e tanta la melassa che il suo approccio è più quello di una favola che quello del cinema d’impegno civile.
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