La vetta degli dei, la recensione

Si trova su Netflix uno dei migliori film dell'anno, misterioso e capace di conquistare senza usare le solite armi dei film

Critico e giornalista cinematografico


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La vetta degli dei, la recensione

Ritrovarsi a tremare per l’incolumità di un personaggio disegnato (e comunque di finzione) come se fosse uno di un documentario. Era da Free Solo, uno dei documentari più testardi e visionari nel capire che un uomo e una parete sono un soggetto che basta a sé stesso, che un film non riusciva a rimettere sullo schermo quella sensazione di grandezza e futilità. Rischiare la vita per qualcosa di così lontano dalla nostra lista di obiettivi per i quali vale la pena morire, è al tempo stesso una maniera di raccontare un’ossessione e un’attrazione verso le cime che non molti possono capire, ma che è chiaro essere un magnete per tantissimi. Una sfida che non finisce mai, come viene detto, che ha senso solo se difficile, impossibile e rischiosa.

La vetta degli dei descrive pornograficamente i meccanismi della scalata, e solo così può avere un senso tutta la storia, perché è necessario comprendere il sistema di rampini, corde, imbracature e ganci che danno un certo senso di sicurezza per avere chiaro come mai vengano tentate certe imprese e vengano prese certe decisioni.
È la storia di un’indagine (già di per sé ossessiva) su un alpinista che forse avrebbe le prove che sulla cima dell’Everest non ci è arrivato per primo chi crediamo, ma qualcun altro. In breve questa trama si trasforma in un’altra storia, quella di un uomo che scala come se cercasse la morte. Spinto da una morte nel suo passato, dalla ricerca di un senso di purezza e da un rapporto malato con le vette e le imprese, il protagonista trascina senza volerlo il giornalista in un viaggio impossibile in cui facilmente ci si ritrova a chiedersi: “Perché?”.

È la domanda al cuore di un film che fa di tutto per mostrare la sofferenza e la paura di morire dei protagonisti.
Una volta tanto ci troviamo di fronte ad un film che ha capito alla perfezione la propria storia (tratta dal manga omonimo di Jiro Taniguchi a sua volta tratto dalla storia di Baku Yumemakura). Vale la pena ripeterlo un’altra volta: è una storia fasulla. Perché in realtà l’impressione che sia qualcosa di vero è potente in questa produzione francese che incrocia la linea chiara con il character design nipponico e la passione dell’animazione nipponica per il calco di una realtà naturalistica che poi viene piegata dalle sensazioni individuali. Come negli anime infatti quello che provano i personaggi si riflette nel mondo intorno a loro (l’assiderazione ad esempio fa diventare tutto rosso, con un’idea genialmente controintuitiva) e come negli anime poi i momenti più delicati, di serenità sono comunicati da cibo e bevande, da silenzio e contemplazione.

È un crossover eccezionale che vive, forse anche più delle tavole del manga, di un disegno delle montagne che è tutto. Il fascino della sfida ai colossi della natura è l’obiettivo principale del film, i paesaggi montani, la definizione delle pareti e le nuvole, le albe, il vento… Tutto quello che riguarda la natura schiaccia in cura e precisione quel che riguarda gli umani, disegnati con tratti semplici e raramente inquadrati da vicino, sempre a debita distanza, perché sono le montagne il punto. Affascinanti e terribili, scoscese e impervie.
Raramente si è visto un film d’animazione così deciso, così capace di trascurare tutte le regole del buon racconto per procedere così bene e così deciso verso la messa in scena delle grandi ossessioni umane.

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