La treccia, la recensione

Tre storie di donne che in modi e luoghi diverse vivono vite rese difficili dalla società degli uomini in La treccia vengono infine unite

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di La treccia, in uscita il 20 giugno in sala

L’idea di La treccia è un classico: tre storie che avvengono in tre parti diverse del mondo, tre storie separate di tre donne che non si conoscono, hanno età diverse, estrazione diversa e problemi diversi, ma alla fine, unite da una treccia. Sono tre storie di come oggi, a livelli diversi, in culture diverse e con modalità diverse le donne vivano situazioni di svantaggio: è vero per una madre della casta degli Intoccabili in India, che cerca di spostarsi con sua figlia per raggiungere un posto migliore in cui crescerla ma la sua condizione rende il viaggio un’Odissea; è vero per un avvocato di un grande studio, a un passo da un avanzamento importante di carriera, che scopre di avere un cancro e deve sottoporsi a una chemioterapia senza trovare aiuto in nessuno e con tre figli a carico da gestire, oltre alle angherie sul lavoro; è vero per una ragazza di Monopoli, in Puglia, il cui padre prima va in coma e poi muore, evento che le fa scoprire i debiti della società che lui aveva, getta la famiglia in uno stato di prossima indigenza e spinge la madre a cercare di maritarla con una famiglia abbiente.

Sono storie tragiche, tratte dal romanzo omonimo di Laetitia Colombani che è anche regista del film, in cui l'assenza degli uomini o la loro ignavia è sempre la molla che scatena gli eventi e che questo film racconta con un tono melodrammatico molto mal gestito. È la scrittura il primo problema, mai precisa e sempre generica. Riferimenti, problemi, questioni, snodi e intrecci di queste tre storie che sono raccontate in parallelo, sono sempre vaghi (come del resto ambientazioni e dettagli). Questo è un film che in ogni sua componente grida approssimazione e quindi si propone a un pubblico che si fa pochissime domande e guarda distrattamente. Perché poi a cascata né la recitazione, né tantomeno la gestione del ritmo sono al livello delle ambizioni. L'idea di queste storie lontane e apparentemente slegate che avvengono in punti diversi del pianeta viene dai film della coppia Iñarritu/Arriaga, solo che qui manca quella capacità di creare tre contesti convincenti senza che nessuna storia abbia il tempo di un film intero per essere sviluppata.

Le intenzioni sono molto chiare e anche la scelta del melò sarebbe perfettamente in linea con quello che La treccia vuole raccontare, cioè che la questione femminile è un problema mondiale che prescinde dai contesti, dal reddito, dai diritti e dal livello di coscienza che esiste nel paese, è qualcosa di atavico, ma da cui si può uscire attraverso l’unione. Saranno infatti dei capelli a unire, inconsapevolmente, tutte queste donne caratterizzate da uno spirito indomito. È cinema di grandi speranze e di fiducia nel domani ma anche così manicheo e semplicistico nell’affrontare la questione (e non era facile esserlo nel momento in cui si raccontano tre storie diverse che dicono la medesima cosa) da promuovere l’idea più odiosa e anticinematografica possibile: che il punto di un film stia nel trasmettere un messaggio allo spettatore e non nel lavorare con la forma per stabilire un rapporto di interazione con lo spettatore.

Continua a leggere su BadTaste